Figlio di contadini del Sud, Saverio Strati fu incoraggiato a scrivere da Giacomo Debenedetti durante gli anni universitari a Messina. La produzione letteraria di Strati, centrata su tematiche meridionalistiche – punto di partenza verso un uditorio universale –, ha ricevuto molti premi fra i quali, nel 1977, il Campiello per Il selvaggio di Santa Venere.
Il 16 agosto 1924 nasceva a Sant’Agata del Bianco, piccolo centro nel cuore dell’Aspromonte, in Calabria, Saverio Strati, uno degli scrittori più importanti della narrativa italiana del Novecento.
Cresciuto in una famiglia di umili origini, Strati in giovane età lasciò gli studi per aiutare il padre nei campi e nel lavoro di muratore nella sua Sant’Agata. La passione per la lettura e il sapere, però, cominciarono a ribollire dentro il giovane Saverio, così, dopo avere ricevuto un provvidenziale sostegno economico da uno zio emigrato in America, riuscì a riallacciare il filo perduto con gli studi e a conseguire da studente esterno la maturità classica a Catanzaro. Dopodiché si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina.
La strada verso la carriera letteraria
Correva il 1950 e in quell’anno Saverio Strati cominciò a dare forma alla sua vocazione per la scrittura. Fu così che lo scrittore operaio consegnò al suo professore, Giacomo Debenedetti, un manoscritto di dodici racconti dal titolo La Marchesina. L’opera sorprese il saggista e critico piemontese a tal modo che decise di presentarla ad Alberto Mondadori; individuandone le eccezionali attitudini letterarie – confermate subito dopo pure da Elio Vittorini –, Debenedetti incoraggiò dunque il giovane autore a scrivere. Cominciò con queste alte benedizioni, nel 1956, la carriera letteraria di Saverio Strati.
I grandi romanzi di Saverio Strati
Il 1957 è l’anno in cui vide la luce La teda. Il romanzo racconta la storia di una squadra di muratori che si sposta in un paese dell’Aspromonte, Terrarossa, sperduto e isolato, lungi da qualsivoglia contaminazione sociale e spie di sviluppo che baluginavano, invece, ad altre latitudini. Incontrando quella gente così distante dalle spinte di progresso della civiltà moderna, uno degli operari, il più erudito, decide di istruire quelle anime circa i loro diritti, accendendo un fuoco spento e instillando in loro una nuova visione di sé. Nelle pagine de La teda, “gli umili si trasformano da oggetti della storia a soggetti in grado di farla la storia” sostiene Palma Comandè, nipote dello scrittore e autrice di Prima di tutto un uomo (edito Rubbettino), un romanzo basato sulla vita di Strati e la sua famiglia.
Il lavoro letterario dello scrittore di Sant’Agata del Bianco raggiunse un primo grande riscontro internazionale con Tibi e Tascia, romanzo fra i più rappresentativi di Strati, che nel 1960 ricevette in Svizzera il Premio Veillon e che Goffredo Fofi, nella nuova edizione uscita per Rubbettino nel 2019, ha definito romanzo “di concreta quotidianità, di infantile (e dunque assoluta) verità”.
Tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in bulgaro, in slovacco e in spagnolo, Saverio Strati narrò nei suoi libri le vere condizioni di vita della gente del Sud, lungi dagli stereotipi e dai vittimismi, senza necessità di caricare le pagine di retorica. Lo scrittore raccontò il lavoro, i sacrifici quotidiani, le fatiche silenziose, la ferrea dignità, le speranze inespresse, la tempra inscalfibile di un popolo granitico come la sua terra, la Calabria e il suo paesaggio e quel perenne destino appeso fra restare e partire, il dolore di chi va via e quello, per niente minore, di chi rimane.
Il selvaggio di Santa Venere e il Premio Campiello del ’77
Dopo un lungo soggiorno in Svizzera, lo scrittore calabrese ritornò in Italia nei primi anni settanta: di quel decennio sono altri grandi successi quali Il codardo, Noi lazzaroni e Il selvaggio di Santa Venere, opera incentrata sul racconto del divario fra le due parti dello Stivale – aumentato nei decenni nevralgici del Novecento – e sui tentativi di emancipazione educativa e culturale delle classi più disagiate, passi necessari per comprendere il mondo e non lasciarsi risucchiare nel vortice del malaffare.
Il selvaggio di Santa Venere nel 1977 fu insignito del prestigioso Premio Campiello, ma proprio a causa del riconoscimento ricevuto Saverio Strati attirò su di sé l’antipatia degli esponenti dei circoli letterari della medioborghesia italiana.
L’ostracismo culturale e la doverosa riscoperta
Disse in una intervista dell’epoca: “Nessuno dei signori suddetti si è degnato, dopo l’assegnazione del premio, non dico di complimentarsi con me, ma anche solo di dichiarare la propria adesione al mio libro. Con divertimento, ho assistito al ridicolo mimetismo di gente che evitava di salutarmi per non compromettersi”.
Parole di denuncia verso una classe intellettuale interessata ad accentrare a sé tutti i poteri, a rendere la letteratura una faccenda sempre più esclusiva, nonostante gli applauditi discorsetti di facciata; parole prodi – di cui avremmo tanto bisogno anche adesso – che però probabilmente gli causarono il successivo purgatorio culturale.
Nell’ultima fase del suo passaggio terreno, infatti, Saverio Strati entrò in un cono d’ombra, che ebbe come acme il rifiuto di Mondadori verso il suo ultimo scritto, Tutta una vita, uscito postumo, e trascorse gli ultimi anni in difficoltà economiche, alleviate soltanto grazie ai benefici della legge Bacchelli per gli artisti.
Strati si spense il 9 aprile 2014, alle porte dei novant’anni, a Scandicci, in Toscana, dove aveva trascorso la maggior parte della sua lunga vita pur mantenendo inalterato il rapporto con la terra natia.
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La ripubblicazione della sua opera letteraria per l’editore Rubbettino ha permesso negli ultimi anni di riscoprire un grande scrittore del Sud e di respiro europeo e accendere i riflettori su una serie di romanzi importanti per analizzare le condizioni socioculturali del Meridione del secolo scorso e decifrare il nostro enigmatico presente.
Antonio Pagliuso