“Se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia isola santa.” 150 anni fa nasceva a Nuoro, in Sardegna, Grazia Deledda, unica donna italiana ad aver ricevuto il Nobel per la Letteratura. Dopo l’insigne premio, fu “corteggiata” da Mussolini ma rifiutò le avances del partito asserendo che “l’arte non fa politica”.
“Cominciai a scrivere così, quasi per istinto. Come l’uccello comincia a cantare, come la farfalla vola, come la sorgente sgorga.”
Avida di vita e di storie, di una sarditudine che non isola, ma che spalanca orizzonti di luoghi e di senso. Tra racconti di pietà religiosa e di intimità delicata, tra banditi ed emarginati, tra affetti intensi e selvaggi… una piccola donna avanza, con passo audace e sicuro.
Fruga nell’anima di persone e personaggi, indagando nella sua. Sogna la gloria, non per sentimenti di vanità o di egoismo, ma perché ama immensamente la sua terra. Desidera diradare – con un mite raggio – le foschie ombrose dei boschi, narrare intera la vita e la passione del popolo sardo, così diverso dagli altri, vilipeso e dimenticato, reso ancor più misero da una fiera e primitiva ignoranza. Crea una sorta di epos, in cui pastori e contadini, padroni e servi vivono nell’intreccio di in una rappresentazione apparentemente distaccata e oggettiva, nel gioco cromatico del chiaroscuro di una fragile esistenza. E intanto, si sta… come Canne al vento.
Nuoro, la città in cui Grazia Deledda nasce il 27 settembre 1871 (seppur registrata il giorno seguente), esattamente centocinquant’anni fa, le regala letture appassionate e storie da ascoltare: è una sorta di isola nell’isola. La casa paterna assume le fattezze di un fortilizio e al contempo di un sogno. Un recinto per proteggersi dall’acredine della sua gente, un luogo della mente e del cuore in cui rifugiarsi per scrivere e per veleggiare. Le montagne si fanno orizzonte; i libri assumono le sembianze di amici autentici; il silenzio e lo studio diventano la piccola e costante scorta del suo ingegno. Vigile e sempre presente è il mare: grande mistero di una landa di cespugli azzurri con a riva una siepe di biancospini fioriti.
“Leggo relativamente poco, ma cose buone, e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano, ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall’italiana.”
I primi passi nella letteratura
Intanto, Grazia Deledda muove i primi passi nella novellistica e la sua vita inizia ad assumere contorni fiabeschi, grandi e luminosi. Vive con i venti, guardando incessantemente il lento svolgersi delle nuvole, ascolta canti, musiche tradizionali, fiabe e discorsi del popolo. Forma la sua arte, come una canzone o un motivo che sgorga spontaneo dalla labbra di un poeta primitivo. La sua penna, sin da subito, è forte e vigorosa. Il fraseggio scorre con schiettezza e forza, in un continuo lavoro di traslitterazione tra la lingua sarda (che gode di una propria autonomia e dignità letteraria, derivante dalla sua appartenenza alla eredità romanza) e l’italiano, una sorta di strumento in cui riversare il vissuto e la fenomenologia delle sensazioni. È un uso consapevole e voluto. Una scelta che compare sin dai tempi in cui scrive per riviste di moda e che si riconferma, anche e soprattutto, nelle opere della maturità. Uno stile innovativo, una sorta di miscellanea tra due lingue che si appartengono, pur differenziandosi, mentre lessemi in lingua sarda si innestano, come ricami preziosi, all’interno della narrazione.
La vita privata di Grazia Deledda
Avida di parole, di significanti e significati, di suoni della lingua materna e di segni intrisi nella forza indomita della scrittura… una piccola donna di venti anni – di carnagione bianca e vellutata – ha solo uno scopo: creare una letteratura completamente ed esclusivamente sarda. Senza mai recidere le radici, che affondano in un paese dolce-amaro, affida l’anima arcaica dei luoghi natii all’universalità della grande scrittura, proiettandola verso il futuro. Scrive di una terra ostile, gretta e miserabile, sempre uguale a se stessa e imperturbabile, eppure amata oltre misura.
Narra, narrandosi, innalzando il suo canto al di sopra della voce rancorosa della sua gente, che l’accusa di scrivere menzogne e calunnie. Indossa gli abiti di Cosima, una ragazzina di quattordici anni, che sembra selvaggia e timida come una cerbiatta, ma che è invece una ribelle costretta da una forza sotterranea a scrivere versi e novelle. E il giudizio, carico di pregiudizio, di certa critica locale, che vede i limiti insiti nella sardofonia della sua scrittura, diventa spinta propulsiva di un fare, al di là dei limiti posti e imposti. Cresce la brama di superare recinti e ostacoli del piccolo mondo. Cresce l’astio di quel popolo che ama e che lei tuttavia desidera riscattare attraverso la sua arte. Ha soli diciassette anni quando il prete Virdis, durante un’omelia, punta pubblicamente il dito contro di lei consigliandole di pregare, piuttosto che “scrivere per i giornali storie scostumate”.
“Se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia isola santa.”
Nuoro e poi Cagliari. E ancora, il desiderio della castellana di rimanere in un solitario maniero, in attesa di scorgere in lontananza una vela di speranza, mentre si fa vivo e pressante il miraggio della rondine, che desidera trasvolare verso le meravigliose regioni del Continente.
L’abbandono all’isola e il trasferimento a Roma
Assetata di orizzonti nuovi e di certezze, nella precarietà della vita… una minuta donna sarda, che ha capelli neri e mani minuscole e affusolate, anela a vivere nella Terra santa, la Gerusalemme dell’arte: Roma. Il distacco fisico dalla sua Sardegna segna in realtà un legame ben più profondo con essa. Ne trascende l’immagine geografica, rendendola mito e archetipo.
È il 1900, l’inizio di un nuovo secolo e di una nuova vita per lei. La realizzazione di più sogni: il matrimonio con Palmiro Madesani, il trasferimento nella Capitale, la possibilità di inseguire la notorietà e il riconoscimento letterario su scala nazionale. Proprio qui scrive i suoi romanzi di maggior successo: Elias Portolu (1903), Cenere (1904), da cui nel 1916 è tratto l’omonimo film interpretato da Eleonora Duse, L’edera (1908) e Canne al vento (1913).
Lo stile
La sua prosa, scorrevole e vivace, si fa spazio nel panorama internazionale. Le sue opere diventano veri e propri viaggi nell’animo dei protagonisti, piagati e piegati dalla vita, come rami ritorti, ma non spezzati. I temi si intrecciano a quelli cari alla letteratura del XX secolo: la condizione dell’uomo, la sua natura tra pulsioni del bene e male, il libero arbitrio e predestinazione. La vita le appare come relazione, progetto, fatica, dolore, ma soprattutto provvidenza e mistero. Ritorna il conflitto sempre vivo e mai sopito tra il bene e il male, insito nell’uomo stesso e non percepito come aspetto esogeno alla natura umana. E risuona intanto l’eco della voce russa, di Dostoevskij e Tolstoj. Avida di sogni e di segni, da accogliere con singolare modestia.
Grazia Deledda e il Premio Nobel per la Letteratura
Il successo arriva nel 1927, anno in cui le viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura (prima e unica donna italiana). Grazia Deledda, definita da certa critica italiana “massaia della letteratura”, procede a testa alta, cercando oltre, nell’altro che le viene incontro. Lei, che non è andata al di là della quarta classe elementare, viene insignita del prestigioso premio letterario. Ringrazia il re di Svezia, il re d’Italia, Dio, ma ostinatamente e ostentatamente rifiuta di citare il presidente del Consiglio italiano durante il discorso.
Nel corso dell’inevitabile incontro ufficiale, al rientro da Stoccolma, Benito Mussolini le chiede espressamente di scrivere qualcosa per il Partito. La risposta acuta della temeraria nuorese è: “L’arte non fa politica”.
“Sono piccina, piccina. Sono piccola… ma sono ardita e coraggiosa come un gigante.”
Centocinquanta anni di Grazia: un dono per i lettori di ieri e di oggi, che travalica gli argini del tempestoso mare. Un lascito che, costantemente vivificato dal desiderio di fuga, racconta di una terra aspra, di ancestrale bellezza.
Ricordarla è un atto dovuto. Significa dare il giusto merito a un canto “al femminile”, riappropriarsi di quel rapporto di “sorellanza universale” che, come la Deledda fece con molte artiste del suo tempo, è cooperazione, sinergia per un sogno comune da realizzare; significa ritrovare il significato della propria identità, attraverso un percorso di rinnovata dignità, assaporare suoni odori e sapori di una terra dolce amara sentendo in quel respiro il respiro del mondo. Significa dar voce a un sofferto canto corale attraverso i suoni di una lingua che oltrepassa gli stereotipi letterari.
Leggere Grazia Deledda è un atto necessario per noi che oggi riscopriamo un canto, avido di bellezza e di tanta Grazia.
Elisa Chiriano
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