Scopriamo la letteratura contemporanea afghana con i romanzi di tre grandi scrittori nati in Afghanistan: Mohammad Hossein Mohammadi, Atiq Rahimi e Khaled Hosseini.
Negli ultimi giorni il mondo è tornato a parlare dell’Afghanistan con la nuova avanzata dei talebani e la conquista di Kabul che ha posto fine al breve periodo di tregua sotto il presidente Ashraf Ghani.
“I talebani hanno vinto – ha affermato Ghani, eletto nel 2014 – e ora sono responsabili dell’onore, della proprietà e della tutela dei loro connazionali”. Gli occidentali si sono dati alla fuga generale dalla capitale assediata, un tempo chiamata la Parigi d’Oriente, gli integralisti hanno in mano l’Afghanistan e la prospettiva della rinascita di un Emirato islamico, accompagnata da una lunga fase di tensioni internazionali, è quanto mai solida.
Ritorna così il terrore e l’incertezza in un Paese che non riesce a trovare pace, una nazione importante anche per le letterature asiatiche – la letteratura afghana rientra in quella delle lingue persiane e arabe –, che, in tempi recenti, ha dato almeno tre scrittori tra i più apprezzati in Occidente.
Letteratura in lingua dari e pashtu
La repubblica islamica dell’Afghanistan ha due lingue ufficialmente riconosciute e di pari dignità: il dari (il persiano dell’Afghanistan, l’idioma più diffuso) e il pashtu (la lingua iranica parlata anche in Pakistan).
Tra gli autori più importanti in lingua dari è da ricordare Majrouh Said Bahaudin, morto tragicamente in un attentato nel 1988, poeta, narratore e intellettuale del quale in Italia possiamo leggere Il viandante di mezzanotte e Il riso degli amanti, entrambi pubblicati da Luni Editrice. Per il pashtu, invece, Ahmad Maulawi è considerato l’ideatore della prosa in lingua pashtu di oggi.
Letteratura afghana, tra guerra e diaspora
Con i conflitti scoppiati negli ultimi decenni del Novecento, susseguentemente al colpo di stato del 1973 che detronizzò il re Mohammed Zahir Shah, in Afghanistan si è sviluppata una grande letteratura di guerra e della diaspora. Nel nuovo millennio, questa corrente ha visto affermarsi tre nomi su tutti, tre scrittori che hanno fatto conoscere al mondo il dramma dal quale l’Afghanistan non riesce a svincolarsi: parliamo di Mohammad Hossein Mohammadi, Atiq Rahimi e Khaled Hosseini.
Mohammad Hossein Mohammadi
Nato nel 1975 a Mazar-e Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, Mohammad Hossein Mohammadi cresce in Iran, dove la famiglia ha trovato rifugio dopo l’invasione dell’Unione Sovietica del 1979. Ottenuto il diploma, fa ritorno in Afghanistan per studiare medicina, ma l’arrivo dei Talebani lo costringe a una nuova fuga in Iran. Oggi collabora con diverse riviste letterarie, dirige la Casa della Letteratura afgana ed è un autore di successo. Con I fichi rossi di Mazar-e Sharif, la sua prima raccolta di racconti edita in Italia da Ponte33, ha vinto i premi Golshiri, Mehregan e Isfahan.
La trama de I fichi rossi di Mazar-e Sharif
Cronaca di un conflitto interminabile, i quattordici racconti de I fichi rossi di Mazar-e Sharif si trasformano, grazie alla scrittura lucida, elegante ed intensa di Mohammad Hossein Mohammadi, in una sinfonia di voci e di sentimenti sulle variazioni della guerra, la morte, l’amore, la nostalgia per un Afghanistan perduto.
La dolcezza del passato e l’orrore di un lungo presente, simboleggiati dall’albero di fichi del titolo che in un giardino di Mazar-e Sharif una bambina fruga alla ricerca di un frutto maturo, mentre il rombo degli aerei preannuncia morte e terrore, sono narrati attraverso una sapiente miscela di fantasia e realtà. Mohammadi, uno dei protagonisti della società civile di un Paese che cerca disperatamente di ritrovare una propria strada verso la normalità, ha scelto di far parlare tutti i protagonisti della tragedia corale nella quale l’insensatezza della guerra ha gettato l’Afghanistan: contadini uccisi mentre si apprestano a raccogliere il grano nell’intervallo tra una battaglia e l’altra; bambini che la guerra ha reso orfani, mutilati, segnati a fuoco dall’orrore senza fine degli adulti; madri di famiglia costrette a prostituirsi nonostante l’incubo della lapidazione; giovani fanciulle concupite come bottino di guerra; uomini normali che la guerra trasforma in mostri irsuti e insensibili; combattenti che scoprono le loro debolezze di uomini; difensori della libertà che dimenticano il rispetto di valori che neanche la guerra dovrebbe calpestare. Mohammadi riserva a ognuno di essi, anche a quei talebani esecrati dall’Occidente e temuti in Afghanistan, uno sguardo che scandaglia i loro sentimenti più profondi, e un posto nella Storia che la cronaca giornalistica ha spesso loro negato.
Atiq Rahimi
Atiq Rahimi è nato a Kabul nel 1962. Costretto a lasciare l’Afghanistan nel 1984 a causa della guerra scoppiata in seguito all’invasione sovietica del Paese, raggiunge la Francia, studiando alla Sorbona di Parigi. Qui ottiene un dottorato in comunicazione audiovisiva. Diventato scrittore, regista e sceneggiatore, nel 2008 gli è conferito il Prix Goncourt, il più prestigioso premio letterario di Francia, per il romanzo Pietra di pazienza (Einaudi).
La trama di Pietra di pazienza
Una donna velata siede al capezzale del marito ferito e privo di conoscenza. Accorda il suo respiro su quello dell’uomo, e per la prima volta gli parla. Frammenti di tenerezza, piccoli sogni, illusioni. Poi, a poco a poco, in un fiume liberatorio, tutta la vita le esce di bocca. Pronuncia parole proibite, parole ribelli. Condanna gli uomini e le loro guerre, il fanatismo dei soldati di Allah e la violenza. Osa parlare di religione, di amore e dei piaceri del corpo. Svela piccoli segreti e grandi colpe. Una voce che affiora da secoli di sottomissione e di sofferenza. Incanta, prega, grida. Ritrova se stessa. Ed è, infine, liberata.
Dal romanzo è stato tratto anche un film, distribuito in Italia col titolo Come pietra paziente.
Altri libri editi in Italia di Atiq Rahimi sono Le mille case del sogno e del terrore, L’immagine del ritorno, Maledetto Dostoevskij, I portatori d’acqua e Terra e cenere (tutti pubblicati da Einaudi).
La trama di Terra e cenere
Questa storia si svolge nei dintorni della città di Polkhomrí, in Afghanistan, negli anni dell’occupazione sovietica. Lo scenario è un paesaggio fisico e umano ridotto all’osso, rocce arroventate dal sole, arbusti riarsi, un ponte sopra un fiume in secca, un guardiano addormentato nella sua guardiola, un negoziante filosofo nel suo bugigattolo. I protagonisti sono un vecchio e un bambino seduti sul ciglio della strada ad aspettare un camion. Cercano un passaggio per raggiungere la miniera dove lavora Moràd, figlio del vecchio, padre del bambino. La polvere che sporca, soffoca e nasconde quest’angolo desolato del pianeta non può cancellare l’angoscia del vecchio, né far tacere gli interrogativi del bambino. Il vecchio teme che Moràd gli chieda la ragione della visita fuori programma. Teme che il bambino urli che i russi hanno rubato i suoni del mondo e che la gente ha perso la parola.
Khaled Hosseini
Quello di Khaled Hosseini è il nome più noto della letteratura contemporanea afghana. Figlio di un diplomatico in servizio al Ministero degli Esteri e di una insegnante di persiano e storia, Khaled Hosseini è nato a Kabul nel 1965. Trasferitosi nel 1980 con la famiglia negli Stati Uniti, in California, ha studiato medicina, esercitando poi la professione di medico. Agli inizi del Duemila si è dedicato alla scrittura ottenendo un successo planetario con il suo primo indimenticabile romanzo, Il cacciatore di aquiloni (Piemme). Il libro ha venduto solo in Italia un milione di copie, divenuti quattro insieme ai successivi due bestseller Mille splendidi soli e E l’eco rispose.
La trama de Il cacciatore di aquiloni
Si dice che il tempo guarisca ogni ferita. Ma, per Amir, il passato è una bestia dai lunghi artigli, pronta a riacciuffarlo quando meno se lo aspetta. Sono trascorsi molti anni dal giorno in cui la vita del suo amico Hassan – il cacciatore di aquiloni – è cambiata per sempre in un vicolo di Kabul. Quel giorno, Amir si è macchiato di una colpa terribile.
Sarà una telefonata inaspettata a risvegliare i fantasmi della sua coscienza. Sarà una telefonata a riportarlo in un Afghanistan martoriato dalla violenza per riprendere la strada verso la sua dolorosa redenzione.
La trama di Mille splendidi soli
A quindici anni, Mariam non è mai stata a Herat. Dalla sua kolba di legno in cima alla collina, osserva i minareti in lontananza e attende con ansia l’arrivo del giovedì, il giorno in cui il padre le fa visita e le parla di poeti e giardini meravigliosi, di razzi che atterrano sulla luna e dei film che proietta nel suo cinema. Mariam vorrebbe avere le ali per raggiungere la casa di Herat. Qui il padre non la porterà mai perché lei è una harami, una bastarda, e sarebbe un’umiliazione per le sue tre mogli e i dieci figli legittimi ospitarla sotto lo stesso tetto. Vorrebbe anche andare a scuola, ma sarebbe inutile, le dice sua madre, come lucidare una sputacchiera. L’unica cosa che deve imparare è la sopportazione.
Laila è nata a Kabul la notte della rivoluzione, nell’aprile del 1978. Aveva solo due anni quando i suoi fratelli si sono arruolati nella jihad. Per questo, il giorno del funerale, le è difficile piangere. Per Laila, il vero fratello è Tariq, che ha perso una gamba su una mina ma sa difenderla dai dispetti dei coetanei; il compagno di giochi che le insegna le parolacce in pashto e ogni sera le dà la buonanotte con segnali luminosi dalla finestra.
Mariam e Laila non potrebbero essere più diverse, ma la guerra le farà incontrare in modo imprevedibile. Dall’intreccio di due destini, una storia che ripercorre la Storia di un paese in cerca di pace, dove l’amicizia e l’amore sembrano ancora l’unica salvezza.
Antonio Pagliuso