“A quei tempi, sull’Aspromonte e ovunque il tempo si mostrasse soltanto per decretare la fine delle generazioni, la violenza e la beffa coesistevano, così come il senso dell’onore e la lascivia. Era possibile credere in tutto, anche nella congruenza dei contrari. Ciò che contava davvero era sopravvivere, e ognuno doveva sopravvivere a modo suo.”
Sopravvivere, forse, è la parola chiave di La fortuna del Greco, l’esordio letterario di Vincenzo Reale appena pubblicato dalla casa editrice Rubbettino.
Il Greco è uno dei due protagonisti centrali del romanzo, due cugini: Antonio il Tòzzolo e, appunto, Antonio il Greco, il nonno dell’io narrante, Greco perché in molti gli attribuiscono lineamenti ellenici, taluni addirittura riscontrano nel suo volto somiglianze con quello del re guerriero del gruppo scultoreo peloponnesiaco dei Bronzi di Riace (ovvero il Bronzo B, conosciuto colloquialmente anche come il Vecchio).
Una storia intima e universale
La fortuna del Greco è la narrazione della vita di un nonno che scompare, narrazione reale, immaginata e rielaborata, ché per chiare ragioni siamo spettatori del solo ultimo segmento della parabola esistenziale dei nostri nonni, quasi sempre quello più difficile e meno avventuroso. Un esercizio razionale e irrazionale di memoria e fantasia non così insolito, specie nei momenti di metabolizzazione del lutto.
Vincenzo Reale, insegnante di lingua italiana agli stranieri e autore di racconti e libretti d’opera, parte da un distacco per raccontare una storia intima e universale che, discendendo dalla millenaria tradizione del racconto orale, tramandato, con rinnovate sfumature, da generazione in generazione, sfocia nella letteratura.
L’affresco di un universo arcaico, fra ragione e magia
Nelle pagine del romanzo viene percorso un intero secolo di storia della Calabria, con epicentro Carafa Nuova – classico caso di “paese doppio”, erede della Carafa così battezzata in onore della famiglia nobiliare del Regno di Napoli –, un paese isolato e circondato da montagne, nel cuore più impenetrabile della regione, l’Aspromonte, il monte della luce. Il libro di Reale è un affresco di un mondo più che antico, preistorico, di una terra in cui tradizione e religione “ufficiali” si ibridano alle credenze popolari, alle superstizioni, al malocchio e alle presenze ultraterrene. E non può non balzarci in testa il saggio Sud e magia di Ernesto de Martino.
Soffrire, resistere, sopravvivere
Nel romanzo la storia locale – con la sequela di intrighi e pregiudizi dei piccoli centri, il dramma dell’emigrazione, le sanguinose faide, le calamità naturali che sopraggiungono inesorabili ad azzerare le comunità e le scorribande giovanili dei due cugini, in un’epoca in cui la fame rendeva non diciamo leciti ma perlomeno condonabili i furtarelli ai danni dei signori del posto – è fusa coi grandi avvenimenti del Novecento italiano – il disastro della Seconda guerra mondiale, la sciagurata e confusionaria fase successiva all’armistizio di Cassibile, l’alba della repubblica, l’illusione del progresso socioculturale, il gattopardesco immobilismo delle periferie.
Le avversità si susseguono nel romanzo di Reale, accentuando la coscienza della penosa caducità degli esseri umani, ma evidenziando pure e soprattutto la capacità degli stessi di accettare la sofferenza, fronteggiarla e rialzarsi; in una parola: sopravvivere. Il Greco, archetipo di uno spirito indomito e resistente – come quello che permea i due Bronzi –, affronta le difficoltà una dopo l’altra, appalesando quell’approccio al contempo fatalistico e dignitoso così tipico dell’uomo calabrese.
Una storia dei Sud del mondo
La fortuna del Greco è una storia molto meridionale, o meglio molto legata alle culture dei Sud del mondo, tutti accostabili in qualche maniera, ed è per questo che non è difficile percepire nell’opera una origine da quel realismo magico della letteratura sudamericana che l’autore ha fatto suo per via della passione per i vari Luis Sepúlveda, Roberto Bolaño, Alejo Carpentier, Mario Vargas Llosa, chiaramente anche Gabriel García Márquez.
Guidata da questi insigni numi tutelari, la narrazione di Vincenzo Reale procede spedita, facendo un passo avanti e un altro indietro nel tempo; perché, scrive l’autore, è un po’ così che si racconta una vita, la vita: “saltando di qua e di là nella memoria, ricordando un po’ i buoni e un po’ i cattivi tempi intrecciati e indistricabili, in una concatenazione di persone e parole”.
Antonio Pagliuso