La restanza è il titolo del nuovo libro dell’antropologo e scrittore Vito Teti, da oggi in libreria per i tipi di Einaudi. Un saggio che analizza le ragioni del restare in un mondo segnato da non più luoghi e non ancora luoghi.
“Restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; […] una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni della vita.”
Scrive così Vito Teti nelle pagine di Nostalgia (Marietti, 2020). Oggi l’antropologo e scrittore nato a San Nicola da Crissa – paesino di poco più di mille anime sul lato occidentale delle Serre calabresi – torna in libreria con un nuovo saggio: il suo titolo è La restanza; a pubblicarlo Einaudi, casa editrice con cui Teti ha già pubblicato altri due lavori: e Maledetto Sud (2013) e Fine pasto. Il cibo che verrà (2015).
Qual è, oggi, il senso del restare in un mondo senza più luoghi autentici, ma ricco di non più luoghi e non ancora luoghi? Per Vito Teti “partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità”. Un diritto inattaccabile sia l’uno che l’altro.
Come si legge nella descrizione dell’opera, per restanza va intesa anche “la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi”, in un tempo così caratterizzato dalle emergenze sanitarie, sociali e climatiche che hanno dato rinnovata spinta ai flussi migratori.
Una fase storica in cui è reso quasi un obbligo “immaginare nuove comunità”, ma lungi da facili retoriche, da idee favolistiche dimentiche della memoria dei luoghi e delle necessità e di chi arriva e di chi ha deciso di rimanere, quegli ultimi superstiti diventati a tutti gli effetti i luoghi che abitano, ché talvolta è più difficile restare che andare. La restanza per l’autore “non è una scelta di comodo o attesa di qualcosa, né apatia, né vocazione a contemplare la fine dei luoghi, ma è un processo dinamico e creativo, conflittuale, ma potenzialmente rigenerativo tanto del luogo abitato, quanto per coloro che restano ad abitarlo”.
Antonio Pagliuso