Quella che Antonio Vangone ci propone in Bosco è una scrittura sperimentale, scollata da schemi narrativi e obblighi che hanno a che vedere più con le dinamiche editoriali che con la letteratura.
Il bosco è metafora di tutto quello che c’è oltre il confine del conosciuto, ambientazione misterica delle nostre paure più recondite e di quelle che ancora non conosciamo. È qui, in questo non conosciuto, che vuole accompagnarci Antonio Vangone con la sua raccolta di brevi narrazioni dal titolo, appunto, Bosco, lavoro appena pubblicato per déclic, casa editrice umbra interessata a distribuire opere devianti e di rottura, impossibili da incasellare nelle categorie imposte dal mercato dell’editoria – categorie editoriali, non certo di matrice letteraria.
Nel bosco di Antonio Vangone
Nel bosco ci si imbatte in bisbigli, fruscii, luci, ombre, fenomeni e sensazioni che ci rimandano al komorebi, l’effetto luminoso creato dalle foglie mosse dal vento e dalla luce tanto caro a Hirayama, l’indimenticabile protagonista di Perfect Days di Wim Wenders. E di ispirazioni giapponesi, nonché ispanoamericane, se ne incontrano nel corso della lettura di Bosco.
Nel libro – composto da venticinque mini-racconti e una serie di haiku – emerge un uso molto attento della lingua, che rifugge la comoda familiarità che i lettori cercano oggi, ma allo stesso tempo sperimentale, caratteristica centrale del lavoro di Vangone. Con le sue istantanee, l’autore costruisce e decostruisce la sua lingua, mantenendosi distante dall’utilizzo dell’immagine che risponde maggiormente alla necessità di immediatezza del tempo presente e che nella nostra società ha, nei fatti, sostituito la parola.
“Il tempo necessario è un eterno presente; il passato non si è vissuto; il futuro non lo si potrà mai considerare.”
Una scrittura sperimentale, lungi da schemi editoriali
Sperimentale, la scrittura di Antonio Vangone si libra in taluni slanci futuristici; una scrittura staccata da schemi narrativi e modelli che ingabbiano, obblighi letterari-editoriali che poco dovrebbero avere a che fare con l’arte di scrivere.
Una modalità di scrittura che è anche provocatoria nei riguardi dei cultori delle regole editoriali – durante la lettura i puristi della punteggiatura e della impaginazione potranno, lecitamente, storcere il naso e qualche altro elemento della loro geografia facciale – e della società contemporanea dedita interamente alla vita in mostra, alle attività quotidiane ed esperienze occasionali da mostrare in tempo reale, al consenso pubblico e all’apparenza nella duplice fattura: reale e virtuale, ché “se non si vede su Internet non succede, non succedi”.
Antonio Pagliuso