Recensioni: “La vecchiaia del bambino Matteo” di Angelo Lumelli

“In quegli anni il passato peggiorò, nei miei confronti. Invece di diventare ricordo, come tutto ciò che esiste, al solito modo, scappando di mano – poi ripresentandosi, irrimediabile – ecco che il passato mi balzò davanti, come se volesse farmi rifare tutto il percorso, a memoria – quel giorno quell’ora con questo con quello e perché e per come, eh cristo! – e diamine!”

Tempo, luogo e ricordi. Tre parole, che potrebbero considerarsi anche sinonimi, tre cardini del racconto di una vita che sembra essere irradiata dal sole di un unico lungo pomeriggio estivo.

Qed edizioni, nuova casa editrice nata in Calabria, affacciatasi al panorama editoriale italiano a inizio 2024, dà alle stampe La vecchiaia del bambino Matteo, romanzo poema di Angelo Lumelli, classe ’43, scrittore formatosi nella prima metà degli anni settanta nei cenacoli frequentati da giovani poeti milanesi (Michelangelo Coviello, Milo De Angelis, Mario Mieli, Silvio Giussani e altri) e dai loro maestri (gente come Antonio Porta, Giancarlo Majorino, Franco Loi, Giovanni Raboni, Franco Fortini).

Vincitore nel 1977 del Premio Viareggio Opera Prima con Cosa bella cosa, fra sillogi e romanzi Lumelli è approdato nel Ventunesimo secolo in cui, nel 2020, ha salutato la pubblicazione di tutti i suoi componimenti poetici per le edizioni del verri – il titolo dell’opera è Le poesie.

Il nuovo libro di Angelo Lumelli

Uscito nella collana kòsmos, dedicata alle scritture sperimentali, ai testi più originali, quelli che spesso non trovano spazio presso le case editrici allineate ai dettami del mercato, il nuovo romanzo di Angelo Lumelli presenta una scrittura che mescola antico e moderno – letteratura del Novecento e del Duemila, potremmo sostenere –, passato, presente e futuro, plasmando una originalità stilistica pregna di magia e di un “robusto spessore poetico”, come evidenzia Pasquale De Luca nella sua lettura apparsa su Borderliber.it.

Una narrazione dal ritmo cadenzato, regolare, come il tu-tum tu-tum di una littorina di campagna, quelle che corrono per milioni di chilometri e poi un giorno vengono abbandonate per sempre lungo il binario morto di una stazioncina di paese, roccaforti della non-velocità, di un progresso scaduto, spazi che a primo acchito non si capisce se sono dismessi o vicini all’inevitabile destino, inadeguati a una società rapida, frettolosa e che fugge spedita verso la città, lo sviluppo, la perfezione.

Frammenti di un mondo perduto

Villaggi isolati, chiese rifugio, veicoli che tossiscono sulle provinciali, sulle piste sterrate, superstiti di un mondo oggi in parte perduto. È l’Italia rurale, l’Italia contadina ancora lontana dai massicci e cinici processi di urbanizzazione e cementificazione degli anni settanta che, oltre rifondare città e a creare periferie tutte uguali, hanno innescato l’abbandono delle campagne e della vita agreste, causa della formazione dei cosiddetti paesi fantasma che caratterizzano da Nord a Sud l’entroterra della Penisola, luoghi riaperti soltanto uno o due mesi all’anno per essere inquinati dalle carovane turistiche.

Nelle pagine de La vecchiaia del bambino Matteo resiste quel mondo agli ultimi giorni di felicità, raccontato da un gruppetto di bambini adulti, o adulti bambini, scappati dall’infanzia e all’infanzia ritornati in un naufragio di ricordi, ché il viaggio della vita è sempre, come ogni viaggio, un viaggio di ritorno.

Ritorno al nido, ai luoghi dell’anima e della memoria.

“Ci vuole un bel coraggio ad essere bambini. Mai capito come fanno a sopravvivere. Infatti cercano di crescere più veloci che possono. Io dico che i bambini sopravvivono perché smettono di esserlo. Durasse un po’ di più sarebbe la fine.”

La parola Luogo

Tempo, ricordi e quindi luoghi, dicevamo. Luoghi nascosti, negletti fra le colline, le vigne, i casolari, luoghi che si fanno nome, luoghi che sono le persone che li vivono, una asserzione che sentiamo ferma anch’oggi, in un mondo sempre più aperto e cosmopolita, in anni di nuove migrazioni sì, ma diverse rispetto a un tempo, forse più facili, forse meno dolorose – almeno per la nostra parte di pianeta –, di certo non corredate da quelle lacerazioni destinate a non rimarginarsi più.

“[…] stava per finire la parola Luogo! […] per dire che a un Luogo bisogna starci sopra, mentre passano le ore, i giorni – e da lì, da tale Luogo, sperticarsi di desiderio, di lontananze, di ammirazione. Se un Luogo si lascia attraversare come niente fosse vuole dire che ha mollato le braghe – nel senso che ha rinunciato ai propri misteri, se n’è disfatto, non sapendo più che farne, come reggerlo, come sopportarli!”

Frammenti di un tempo

Nelle scuole di campagna, nelle pluriclassi avvolte in una nuvola odorosa di carta, gesso, polvere e cancellini, nascono le amicizie infinite, quella fra la voce narrante senza nome e Matteo, il bambino che si nasconde dietro il suo nome, l’ideale di luogo, il nascondiglio perfetto in cui “non farsi trovare mai più”; e poi Gustavo, Ernestino, Sabatino, Diodato: sono loro i bambini di quel tempo, in quel mondo ostico ma necessario e dunque così semplice, bambini che devono “dimostrare di esserci” per stimarsi presto adulti.

Amici che scompaiono, strade che si perdono e si ricongiungono, in un tempo circolare, ininterrotto, che non ha coordinate nette, un tempo che si frantuma in milioni di schegge, “come se la vita fosse tutta nell’aprire gli occhi – appena aperti gli occhi è tutto fatto – il resto è roba da ripetenti”.

Antonio Pagliuso