Recensioni: “Atlante dei paesi fantasma” di Riccardo Finelli

In Atlante dei paesi fantasma Riccardo Finelli percorre gli sterrati meno battuti d’Italia raggiungendo, da Nord a Sud, centri e costumi che non ci sono più.

Codera, Consonno, Rovaiolo, Reneuzzi, Canate di Marsiglia, Narbona, Castelnuovo dei Sabbioni, Celleno, Buonanotte, Apice, Roscigno, Santa Chiara sul Tirso, Gairo Vecchia, Osini Vecchio, Monteruga, Craco, Alianello, Cavallerizzo di Cerzeto, Roghudi Vecchio, Poggioreale Antica.

Bisogna elencarli tutti, da Nord a Sud, questi paesi fantasma, istantanea di un’Italia profonda, sbiadita, andata o che verrà. Dalla più settentrionale, Codera, villaggio alpino della omonima valle raggiungibile solo a piedi o in bicicletta, alla più meridionale, Poggioreale Antica, borgo del Belice polverizzato dal sisma del 1968, sono questi i venti protagonisti dell’Atlante dei paesi fantasma di Riccardo Finelli.

Atlante dei paesi fantasma, l’istantanea di unItalia nascosta

Tra le pagine del volume edito da Sonzogno, il giornalista e reporter di viaggio classe 1973 traccia una geografia dell’abbandono e della nostalgia della Penisola. Finelli percorre gli sterrati meno battuti d’Italia raggiungendo centri e costumi che non ci sono più: mura, palazzi, slarghi che hanno fatto da cornice, in un tempo andato, ad amori e angosce, a pianti di nascita e urla di morte, a pranzi di Natale e banchetti di nozze. E poi freni di corriere che stridono in minuscoli spiazzi e agguerriti comizi di piazza tra comunisti e democristiani – fazioni di quando le differenze, presenti allora come adesso, non venivano ammantate sotto la bandiera multicolore dell’ipocrisia e del buonismo a ogni costo. Le piazze dell’Italia nascosta, centri di incontri, di scambi, di grandi affabulazioni. Crocevia di popoli, lingue, culture, leggende.

Paesaggi lunari, cittadelle che conservano ancora il loro impianto medievale, ex abitati decadenti, le cui vie silvane continuano a essere percorse dagli spiriti del passato. Case in cui si ritrovano, cristallizzati in una bolla temporale, vecchi elettrodomestici, armadi, utensili, financo tavole apparecchiate e in attesa di un pranzo che non verrà mai consumato.

Storie oramai inghiottite dal progresso, immobili, mentre i paesi muoiono, risorgono e muoiono nuovamente. Borghi mangiati dalla boscaglia, spopolati, stritolati dalla modernità delle città, come i paesini dell’appennino delle Quattro province stretti tra i palazzi e i grattacieli di Milano, Torino e Genova.

Da Consonno a Roghudi, l’Italia dell’oblio

Un’Italia dimenticata dalle mappe, tagliata fuori dagli itinerari turistici: oblio che riguarda pure Apice, il più grande paese fantasma dello Stivale, noto come la Pompei del ‘900; o Consonno, la cittadina dei sogni della Brianza costruita negli anni sessanta per divertire i nuovi industriali e commercianti dell’Italia baciata dal boom economico e destinata a finire nell’oblio nell’arco di un solo decennio; o Reneuzzi, alta val Borbera, intrico di vicoli in cui l’unica cosa rimasta viva è il dibattito sul suo nome (Reneissi o Reneusi, forse anche Renêuxi); o Roghudi, bastonato dalle sventure naturali e sanitarie, accadimenti assai più tangibili e distruttivi del terrore saraceno del XV e XVI secolo; paese in cui, sovente, il mito si mescola alla cronaca in un’azione che sbiadisce i confini tra le leggenda e la realtà.

Il rispetto verso i borghi abbandonati

In Atlante dei paesi fantasma, Riccardo Finelli, supportato dalle stupende illustrazioni di Alessandra Scandella che impreziosiscono il volume, riporta alla luce una rappresentanza di piccoli paesi totalmente abbandonati o la cui popolazione è ridotta a una manciata di anziani irriducibili.

Paesi che oggi ricordano più un presepio, ex abitati in cui entrare in punta di piedi, con assoluto rispetto, pudore, pure imbarazzo, come se si stesse violando un tempio: “Certo è illecito, seppur in alcun modo impedito, l’accesso a una proprietà altrui. Ma è un filo d’erba dentro cui nessuno può nascondersi: è un fatto che in quelle case si entri e non mi pare grave, a patto che non si sposti neppure una forchetta. Ma una questione ben più pregnante è il diritto all’oblio, all’inviolabilità anche degli oggetti, in virtù di quell’attimo di vita che imprigionano in sé. È questo, in verità, l’unico rimorso che ho provato e provo accedendo a una proprietà abbandonata”.

Antonio Pagliuso