Recensioni: "Il signor poliziotto e la cuoca" di Wilkie Collins

Quando pensiamo a Wilkie Collins, pioniere del genere poliziesco, ci vengono subito in mente alcuni dei suoi romanzi gialli più famosi: La donna in bianco (1859), La pietra di Luna (1868) e La legge e la signora (1875).

Ma Collins, che era amico e collaboratore di Charles Dickens, ci ha lasciato anche una ampia produzione narrativa di breve respiro. Ne è un esempio la storia riportata alle stampe dalla casa editrice Alter Ego con traduzione e introduzione di Enrico De Luca: Il signor poliziotto e la cuoca.

Consapevolmente, come fosse un regalo a tutti i lettori, ci consegnano un libriccino gioiello, che è anche un modo per celebrare il bicentenario dello scrittore, nato a Marylebone, nella Città di Westminster, nel 1824.

La trama

Come riportato proprio nell’introduzione di De Luca, lo scritto appare per la prima volta con il titolo Who Killed Zebedee sullo “Spirit of the Times” il 25 dicembre 1880, e fu poi ripubblicato con alcune modifiche e un nuovo titolo, Mr. Policeman and the Cook, in Little Novels (Chatto & Windus, Londra, 1887).

È notte: in commissariato si presenta la giovane cuoca Priscilla Thurlby. Nella pensione in cui lavora è stato assassinato un uomo, John Zebedee, con inaudita violenza. Il poliziotto che raccoglie la denuncia – e che rievoca in prima persona questa esperienza risalente agli albori della sua carriera – si trova di fronte a un caso in apparenza facile, perché ad autoaccusarsi del delitto è la moglie di Zebedee. Malgrado ciò, l’agente – desideroso di mettersi in buona luce – decide di approfondire la questione, e il ritrovamento di un coltello diventa un nuovo punto di partenza per l’indagine.

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Colpe da espiare: giustizia o cuore, quale seguire?

Il signor poliziotto e la cuoca di Wilkie Collins è, quindi, il racconto – chiaramente costruito in maniera impeccabile – di un omicidio efferato e di un giovane detective dedito al lavoro. Ma non scordiamo un particolare: l’agente di polizia londinese racconta uno dei primissimi casi della sua carriera dal suo letto di morte. Una confessione raccolta e messa nero su bianco da un sacerdote, ché il tempo stringe e c’è una colpa da espiare.

La storia dei miei peccati, raccontata in confessione, includeva una colpevole negligenza di un dovere nei riguardi delle leggi del mio Paese. Secondo l’opinione del prete – e io ero d’accordo con lui – ero vincolato a riconoscere pubblicamente la mia colpa, come atto di penitenza che s’addice a un inglese cattolico.

Per il protagonista è forte il peso – e forse persino il rimorso – di aver compiuto il proprio dovere sì, ma di non averlo fatto fino in fondo.

Per questo la detective story è, soprattutto, la storia di una scelta. Lui sa cosa è il bene e cosa è il male, giusto e sbagliato, ma alla resa dei conti, quando il cerchio intorno al vero colpevole si stringe, si trova davanti a un bivio. Si richiede una decisone: il senso del dovere o quello che dice il cuore. In fondo, è proprio una questione sentimentale che porterà il poliziotto a prendere una strada anziché un’altra, perché tirando le somme una scelta ci sarà. Ci deve essere.

Cosa che grava ancor di più sulle spalle del detective, e sulle pagine del testo man mano che si scorre la lettura, poiché è difficile pensare che un poliziotto non persegua la giustizia a ogni costo. È il modo magistrale di Collins per ricordarci che l’integrità delle forze dell’ordine, checché se ne dica, può avere i suoi punti oscuri e, come dice De Luca, la sua vulnerabilità.