Recensioni: “Divorzio di velluto” di Jana Karšaiová

Bisogna abbandonarsi, nella vita; trovare il coraggio di lasciare, di lasciarsi, per ritrovarsi.

Katarína, la protagonista del romanzo Divorzio di velluto di Jana Karšaiová, è una ragazza nata a cresciuta a Bratislava nella fase conclusiva della breve avventura della Cecoslovacchia, nazione multietnica mitteleuropea che nel corso del Novecento tentò l’impresa di unire sotto un’unica bandiera varie etnie come quella ceca, quella slovacca, quella tedesca, quella rutena e quella ungherese. Stato, la Cecoslovacchia, nato a seguito della fine della Grande Guerra e del disfacimento dell’impero austroungarico e che era formato a ovest dall’attuale Repubblica Ceca, con Praga capitale, a est dall’odierna Slovacchia, con Bratislava maggiore centro, già capitale del Regno d’Ungheria. Città ricca di storia e cultura la prima, a vocazione prettamente contadina la seconda e per tal ragione, per una deprimente “subalternità intellettuale”, bersagliata senza posa dall’ironia praghese. Sordidi attriti tra popoli, tra culture di una Europa in evoluzione, alla continua ricerca della sua forma finale.

Un lutto durato appena un attimo

L’opera prima di Jana Karšaiová, pubblicata da Feltrinelli ed entrata tra i dodici finalisti dell’ultimo Premio Strega con la benedizione di Gad Lerner, prende le mosse da quel divorzio silente tra i due Paesi, avvenuto ufficialmente nella notte di Capodanno del 1° gennaio 1993, dopo alcuni anni di discussione e neppure settantacinque di vita assieme, sulla carta.

“Alcuni davano la colpa ai cechi che volevano comandare gli slovacchi, altri agli slovacchi che erano diventati troppo nazionalisti.”

Il divorzio di velluto o gentile, come lo chiamano rispettivamente i cechi e gli slovacchi, portò a un lutto durato il tempo di un battito di ciglia, ma che ha lasciato dei segni profondi nello spirito delle due popolazioni, non interpellate con un referendum sul tema dello smembramento della vecchia Cecoslovacchia. Quella fase è analizzata attraverso lo sguardo di Katarína, della sua famiglia e delle sue amiche, giovani donne di un Paese all’ultimo giro di rèdova. Un Paese appartenente a un universo comunista in cui la ricchezza doveva essere tenuta nascosta, vissuta come un peccato da espiare.

La questione della lingua

Nel romanzo, la scissione si riverbera in quella avvenuta tra Katarína ed Eugen e in tutte le altre separazioni che, quasi inevitabilmente, sono seguite al taglio geopolitico del ‘93. L’autrice racconta, oltre all’amarezza e al senso di colpa di Katarína per la sua relazione svanita, anche i suoi dissidi famigliari, i rapporti d’amicizia con la sradicata Viera, l’emigrazione in Italia e il bisogno di ripararsi nel grembo caldo della madrelingua ogniqualvolta in difficoltà, ogniqualvolta le parole straniere non riescono a descrivere le emozioni patrie, a rappresentarne i colori e le sfumature.

Parlando di lingue, però, Divorzio di velluto è anche un delicato omaggio alla nostra letteratura – oltre che alla lingua, adottiva per l’autrice, scelta per siglare il suo primo romanzo. Jana Karšaiová cita numerosi capolavori del romanzo italiano del Novecento, certamente amati, come La bella estate di Pavese e Lessico famigliare della Ginzburg, che per i temi e la capacità della parola “di riallacciare in una frazione di secondo gli antichi rapporti famigliari” sembra essere stato di ispirazione per la scrittrice.

La Bratislava eterna di Divorzio di velluto

Altra sensazione, questa volta assolutamente soggettiva, è quella che ha portato il sottoscritto a rivedere una città, Bratislava, vissuta parecchi anni dopo rispetto all’epoca raccontata da Karšaiová, ma sempre uguale nella sua struttura multiforme, nel suo eterno limbo tra passato e futuro: il Danubio, le porte della città vecchia, la fiabesca Chiesa Blu, i tram, i caseggiati di stampo comunista della periferia, vecchi già dalla data di chiusura dei cantieri.

Jana Karšaiová si rende protagonista di un esordio decisamente maturo, espresso con una scrittura nitida, determinata a raggiungere le cellule grigie e lo stomaco della controparte letteraria, il lettore, ché un libro e uno scrittore non sarebbero nulla senza qualcuno capace di coglierne la luce e apprezzarli.

Antonio Pagliuso