Recensioni: “Isole carcere” di Valerio Calzolaio

270 isole, 22 delle quali descritte, quali casi emblematici e più conosciuti, con maggiori approfondimenti per provare a illuminare un fenomeno che ha accompagnato la storia dei sapiens dall’antichità a oggi. Isole carcere è il titolo del nuovo libro, confezionato da Edizioni Gruppo Abele, di Valerio Calzolaio, giornalista, saggista e deputato della Repubblica dal 1992 al 2006; un primo e parziale – e lo sottolinea più volte l’autore – atlante storico e geografico delle isole carcere del nostro pianeta.

Da Alcatraz all’Isola del Diavolo, le isole carceri più famose della storia

Dalle arcinote e famigerate Alcatraz, la Roccia, nella Baia di San Francisco, l’Isola del Diavolo, nella Guyana francese, e If, al largo di Marsiglia – che devono tanto della loro fortuna ai successi editoriali e cinematografici di Fuga da Alcatraz, Papillon e Il conte di Montecristo –, all’intero continente australiano che per decenni ebbe la funzione di raccogliere in un’unica sconfinata prigione agli antipodi gli indesiderati dell’Impero britannico, passando per le isole destinate a omosessuali – significativo il caso dell’isola di San Domino, nelle Tremiti, che dal 1939 fino all’ingresso in guerra dell’Italia fu confino della comunità degli arrusi del Catanese –, brigatisti, mafiosi, criminali o etichettati come tali, come ad esempio, per scegliere un caso fra i tantissimi, quello della prigione di massima sicurezza di Imralı, isola turca nel Mar di Marmara, praticamente riservata, da circa un quarto di secolo, a Abdullah Öcalan, dimenticato leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan.

Un caso esemplare delle ingiustizie nella cosiddetta Europa democratica: “La sua vicenda giudiziaria costituisce una delle più clamorose violazioni dello Stato di diritto in un Paese che fa parte, politicamente se non geograficamente, del contesto europeo”, scrive Valerio Calzolaio.

La prigione Europa

Il ruolo predominante dell’Europa nel quadro dell’isolamento insulare nel corso dei secoli emerge con forza nella terza parte di Isole carcere in cui si trova un elenco e una serie di grafiche relative alle isole carcere – in mare aperto, nei fiumi, nei laghi e nelle lagune – del Mediterraneo, dei mari attorno al Circolo polare artico e dei vari oceani. Ebbene, quel che salta all’occhio da questo campione parziale è che il 48,7% delle prigioni galleggianti si trovava o trova nel democratico Vecchio Continente, ben il 36,6% nel Mare Mediterraneo, la culla delle civiltà più influenti della storia umana.

La doppia e tripla condanna insulare

Un fenomeno “antico e ubiquo” quello delle isole carcere, luoghi abitati, pure se in maniera discontinua, fin dalla Preistoria, luoghi di approdi, di transiti, di insediamenti temporanei, divenuti a un certo punto della storia umana colonie penali. Terre lontane utilizzate al fine di isolare altri sapiens, di punirli doppiamente, anzi triplicemente dato che, a ben rifletterci, “la deportazione in un’isola raddoppia e un penitenziario in un’isola triplica l’isolamento” già instaurato con una detenzione in un carcere sulla terraferma.

Isola, termine che origina dal latino insula e che sta per “in mare”, “circondata dal mare”, com’è, per definizione, un’isola. Isole reali e leggendarie, aspre e dolci, isole del tesoro, remote, emerse, sommerse e sprofondanti. Isole, paradisi ma pure inferni, mete di scoperte e di migrazioni, luoghi atti all’autoisolamento, a tagliare i ponti col resto del mondo, ma anche a isolare i propri simili.

Sono centinaia, probabilmente anche migliaia le isole del mondo usate come luoghi di esilio e detenzione nel susseguirsi dei secoli, tanto che viene da chiedersi se ogni isola del pianeta Terra – numero non calcolabile, comunque oltre le trecentomila unità – in un dato periodo della sua storia sia stata destinata all’isolamento detentivo insulare.

L’esilio su un’isola, un fenomeno antichissimo

La tendenza di isolare i propri simili lontano è un costume proprio dei sapiens, sin dall’ostracismo dell’Antica Grecia e poi con gli istituti più raffinati della deportatio in insulam e della relegatio in insulam romani. La prima, assai in voga in età imperiale, prevedeva la perdita della cittadinanza romana per il condannato, la confisca delle proprietà e il suo allontanamento coatto su un’isola; la seconda prevedeva sì la residenza obbligata su un’isola distante dai luoghi del potere, ma permetteva al “nemico del popolo” di mantenere la cittadinanza, nonché il proprio patrimonio personale, al massimo confiscato soltanto in maniera parziale.

Entrambe le tipologie di pene avevano comunque il solo obiettivo di vendicarsi crudelmente dei prigionieri, non di educarli o indurli al ravvedimento. Un approccio comune, ché è soltanto nel corso del Cinquecento, nel Regno di Sicilia, che si inizia “a diffondere la pena detentiva come alternativa a sanzioni corporali particolarmente cruente”.

Spolverando le pagine della storia, l’autore porta alcuni esempi, come il primo esilio su un’isola documentato, avvenuto nel 171 a.C. e citato da Plinio il Vecchio, di una ragazza che avrebbe mutato il sesso e pertanto fu deportata su un’isola deserta sotto la giurisdizione dell’antica Roma; o anche gli esili delle donne adultere – o semplicemente accusate di esserlo, ché spesso l’accusa fungeva da pretesto per levarsi di torno qualche donna sgradita – nell’isola di Pandataria, l’attuale Ventotene, nell’arcipelago pontino. Fra queste si ricorda Giulia, la maggiore fra le figlie di Augusto.

Ventotene è di sicuro fra le isole carcere italiane più note (fra quelle che vengono raccontante con approfondimenti, aneddoti e fotografie nella seconda parte del volume), così come la vicinissima Santo Stefano in cui ha sede la celebre prigione del Settecento del genere panopticon, il penitenziario a forma di semicerchio con celle individuali ideato dall’economista e filosofo britannico Jeremy Bentham, che nel 1860 fu teatro di un golpe dei detenuti ai danni delle forze dell’ordine borboniche che portò alla breve parentesi – chiusa già all’inizio del 1861 con l’intervento sabaudo – della Repubblica di Santo Stefano, retta dal pregiudicato Francesco Venisca.

Isola carcere di Santo Stefano (Foto condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 3.0)

Progetti di riqualificazione delle strutture carcerarie abbandonate

Dai romani al governo fascista, passando per le monarchie dell’Ottocento: le isole hanno sempre svolto la funzione di prigioni galleggianti.

In questo primo, sperimentale e essenziale tentativo di elencazione e classificazione – primo passo “per giungere a un elenco ben più ampio” –, Valerio Calzolaio mette in rilievo l’arbitrarietà dei governi di ogni tempo e civiltà e concentra la sua indagine anche sugli aspetti della identificazione fra isola e carcere e sulle iniziative di recupero e rifunzionalizzazione riguardanti alcune ex strutture detentive.

L’autore, infatti, oltre ad analizzare il fenomeno delle isole carceri dall’antichità all’epoca moderna e contemporanea, non dimentica di trattare il tema anche in ottica futura, ovvero riflettendo sugli utilizzi attuali e i progetti venturi delle isole carceri, oggi per la grande maggioranza dismesse e abbandonate. Parchi, piccoli musei, percorsi didattici che possano tramandare la memoria di quei luoghi e la storia delle persone che, sovente, vi hanno trovato mala giustizia.

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Le isole carcere di oggi

Quella delle prigioni in mezzo al mare è una storia che non ha raggiunto la parola fine, perché ancora oggi le isole sono utilizzate per tenere a debita distanza chi non è gradito. Esempio sono i grandi confinamenti del nostro tempo, ovvero le drammatiche e taciute e vergognose cronache che si svolgono nelle isole canarine di Fuerteventura e Lanzarote o a Lesbo, catino dell’Egeo settentrionale greco, quindi Europa, in cui da anni sono raccolti e condannati a un immobilismo che pare senza rimedio, un purgatorio eterno, migliaia di migranti afgani, siriani e di svariate nazioni africane. Isole in cui ogni diritto è sospeso, in cui ogni ingiustizia è nascosta.

Antonio Pagliuso