Intervista a Lucio Bellomo, autore di “33 isole”Venezia. Foto © Elisa Manganelli

33 isole è il titolo dell’opera – pubblicata in due volumi da Mursia – dell’ingegnere, istruttore sub, autore e viaggiatore siciliano Lucio Bellomo. Un itinerario lungo, complesso, in barca a vela – piccina, di appena sei metri, senza cabina e dotata di un modesto motore elettrico –, alla ricerca della vera anima delle isole minori d’Italia – termine riferito esclusivamente alle dimensioni – e di quello che potrebbe riservare loro il futuro prossimo. Lo abbiamo intervistato.

Anzitutto partiamo dal titolo: 33 isole. Isole riparate, esposte, soggette agli umori degli elementi. Isole famose, altre praticamente disabitate, talune grandi, talaltre autentici coriandoli di roccia in mare, altre ancora che a primo impatto non definiremmo neppure isole. Quali sono i punti estremi fra questi trentatré luoghi, da Nord a Sud, da Est a Ovest, del nostro Paese?

«Rispettivamente: Grado in Friuli Venezia Giulia, Lampedusa in Sicilia, Gallipoli (il cui centro storico è un’isola) in Puglia e l’Isola di San Pietro in Sardegna.»

 

Quello racchiuso nell’opera è il resoconto di un itinerario suddiviso in trentatré tappe, un viaggio durato quattro mesi e tremila miglia nautiche, per gran parte in solitudine. José Saramago scriveva che non è vero che ogni persona è un’isola, ma che “ogni persona è un silenzio”, un suo specifico, unico silenzio. Il silenzio può disturbare oppure può diventare il più fedele amico in un’esperienza di questo tipo?

«Sulla Maribelle, il nome della barca, ho viaggiato rigorosamente da solo. Alcune tappe sono state brevi (qualche ora, come per esempio fra le isole dell’Arcipelago Eoliano), la più lunga è durata invece cinque giorni e altrettante notti, ovviamente sempre senza scali intermedi. La solitudine a bordo mi ha forzato ad ascoltare il mio “specifico, unico silenzio”. E dunque a conoscerlo, cosa che desideravo fortemente quando concepii questo viaggio. A volte il silenzio ha creato in me un’assuefazione così forte da distruggermi, mentalmente, nel momento in cui sbarcavo e sapevo di dover andare all’incontro degli isolani che stavo cercando. Tuttavia, quando ti prendi del tempo, meglio ancora se è un tempo che non ha una scadenza ben definita, quando sei in balia degli elementi naturali, il vento nel mio caso, e impari ad aspettare con la sola compagnia di te stesso, ecco, allora può succedere che trovi la pace. La pace nell’assenza. A me è capitato di trovarla: quando ci penso, oggi, mi manca terribilmente.»

L’intento del tuo lavoro è quello di fare conoscere alcune delle tantissime piccole isole della Penisola, ma anche far riflettere sul loro presente e l’avvenire. Immagino che nel corso delle tue esperienze in mare tu abbia riscontrato molteplici differenze – dall’accoglienza all’ambiente, passando per i costumi – da un’isola all’altra dello Stivale…

«Non direi che il mio intento fosse quello di far conoscere le isole, anche solo alcune di esse. O perlomeno ero io che volevo conoscerle, ma volevo conoscerle dal di dentro, dai giovani che le abitano e dalle loro storie intraprendenti, virtuose. Mi chiedevo, anche, se ci fossero dei punti comuni fra isole diversissime e lontanissime fra loro. In Italia abbiamo isole remote o oggettivamente ardue da abitare come Linosa e Alicudi. Anche isole città come Ortigia (il centro storico di Siracusa) e Gallipoli, isole lagunari e dunque non a sé stanti bensì facenti parte di un microcosmo-micromare come Grado e Venezia, isole estremamente popolose e densamente abitate come Ischia e Procida, isole dove la comunità è fatta da poche decine di anime come la Palmaria o ancora Alicudi. Ci sono poi isole collegate alla terraferma con ponti come Sant’Antioco e isole coi traghetti anche di notte come la vicina San Pietro; isole che sono vulcani attivi come Stromboli e isole che sono pezzi di deserto come Lampedusa.

Il nostro Paese, insomma, è circondato da un arcipelago fatto di isole diversissime e che proprio per questo costituiscono un patrimonio inestimabile.

Patrimonio, però, che è anzitutto umano, con gli accenti, le tradizioni ma soprattutto le storie. Al di là delle differenze, però, ho trovato un punto comune insospettabile. In tanti mi hanno detto la stessa cosa: “Io sull’isola mi sento che posso controllare tutto, fuori invece mi sento soffocare. Io qui mi sento a casa”, cito, fra i tanti, una ragazza di Ustica. Questo sentirsi a casa su tutta l’isola e non solo dentro le mura, di casa, è per me la radice della “piccol’insularità”, è ciò che crea nostalgie insostenibili ma anche ciò che attira chi sull’isola non è nato. Ciò è comune a tutte le isole, nessuna ma proprio nessuna esclusa.»

Procida: Vista della Corricella e di Terra Murata con la terraferma sullo sfondo. (Foto © Lucio Bellomo)

In un periplo così articolato e in genere in ogni viaggio non ci si può non imbattere in – si spera piccole e superabili – disavventure. Certificato che tu sia riuscito a risolverli – sei qui d’altra parte, e hai pure scritto un libro… –, ci racconti un imprevisto capitato durante la tua traversata per i mari della Penisola? Alt! Eventuali bonacce sono escluse.

«Le bonacce e il caldo di luglio sono stati terribili, considerata l’assenza di ombra e di motore, non posso non dirlo. Sono caduto fuoribordo, di notte, a sud della Sardegna (andavo dalla Maddalena a Sant’Antioco), a qualche miglio dalla costa, mentre facevo una manovra rischiosa perché il mare si era alzato. Ero legato alla barca, certo, e sono riuscito a risalire. Ma per ore ho sentito scorrere un’adrenalina nel mio corpo che mi ha tenuto come spiritato ma allo stesso tempo vivo, letteralmente vivo.»

 

Domanda che si lega alla precedente. Se Lucio Bellomo dovesse scegliere – e so che è arduo –, quale è la tratta che più lo emoziona fra i tanti percorsi marini coperti?

«La tratta per me più significativa è stata indubbiamente quella fra l’Isola di San Pietro (sud-ovest della Sardegna) e Marettimo. Sono 200 miglia in linea retta di cui 150 completamente in mare aperto, fra Sardegna e Sicilia, senza alcuna terra in vista. Era lo spauracchio del mio periplo. Ho ritardato la partenza proprio perché il mare era troppo grosso, rispetto alle dimensioni di Maribelle, per poter salpare. Quando l’ho fatto, però, ho trovato le condizioni perfette e lì ho veramente provato una comunione profonda e forse irripetibile con la Natura. Ne ero diventato un mero elemento, uno fra i tanti.»

Un po’ di esperienza delle isole, o comunque una passione e curiosità, la ho, perciò possiamo parlarci in tutta franchezza, Lucio. Assistiamo con dolore alla inarrestabile trasformazione di molti fra isole e isolotti italiani, fra i più belli del Mediterraneo, in autentici parchi divertimento a uso e consumo del turismo continentale e occidentale. I servizi e le agevolazioni ai residenti – strade, illuminazione, tasse, trasporti, attività commerciali – registrano progressi molto lenti, se non già una annosa immobilità. Più veloce pare vadano invece le iniziative a favore del turismo. È un timore concreto quello di vedere le nostre isole, i nostri arcipelaghi un giorno trasformarsi da paesi vivi – con una comunità che ci dorme e ci si risveglia tutto l’anno, con le sue relazioni e usanze, col suo genius loci – in aree inautentiche (non luoghi) destinate soltanto ai villeggianti da due settimane o due giorni di vacanza?

«Sì, è un timore estremamente concreto, a mio avviso. Il turismo, laddove rappresenta o diventa l’unica economia di un’isola, ne distrugge l’identità.

“Il turismo invade, e a volte può finire per uccidere l’anima di un popolo. Lo espropria”

mi disse un’arzilla ottantenne a Favignana. Amiamo le isole grazie a chi le ha abitate per secoli, per il loro essere in qualche modo diverse dalla terraferma. Il turismo di massa, invece, ha per obiettivo l’esatto contrario. Fare somigliare tutti i luoghi fra loro, farli assomigliare anzi a ciò che il turista desidera per non uscire dalla sua zona di comfort: aperitivo al tramonto, selfie in acqua, un po’ di baldoria la sera. Se l’isolano di oggi si piega a queste richieste, disimpara la cultura isolana, né dunque potrà insegnarla ai suoi figli, che non l’avranno neppure mai conosciuta. Questi ultimi non avranno dunque le chiavi educative necessarie per poterci risiedere, su un’isola, per poterci passare un inverno, soprattutto, dove cala il silenzio e bisogna saper stare da soli e flirtare quotidianamente con la precarietà dell’isolamento geografico.

Entro venti o trent’anni, tutte le isole finiranno così per essere uguali e vuote, derubate della loro identità.

Per fortuna c’è chi l’ha capito. C’è chi o propone un turismo diverso basato per l’appunto sulla condivisione dell’identità peculiare della sua isola, oppure cerca di campare facendo altro o comunque un “altro” che sia al servizio di un turismo sano: guide escursionistiche illuminate, itticoltori isolani, allevatori di capre, artisti e attori di teatri locali. Ne ho incontrati tanti quanto il centinaio di storie che racconto in 33 isole

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Ustica, Lucio alla partenza da Ustica (Foto © Daniel Ducato)

Isole, dal latino insula, voce dalle origini incerte che potrebbe significare “mare in movimento”; isole, circondate dall’agitazione dei flutti, luoghi in cui perdersi o ritrovarsi. In conclusione, Lucio Bellomo, ci dici una caratteristica virtuosa di un’isola in particolare con cui contamineresti tutte le altre?  E pure una particolarità diciamo negativa che invece cancelleresti?

«È una provocazione: io renderei tutte le isole difficilissimamente accessibili come Linosa. A Linosa non esiste un vero e proprio porto e il mare deve essere davvero calmo per far attraccare l’aliscafo invernale che è programmato un giorno sì e uno no.

Dopo questo viaggio considero virtuosa la lentezza e la difficoltà del collegamento marittimo, così che il turista debba veramente volersela conquistare quell’isola: solo allora non la sprecherebbe e la rispetterebbe, una volta sbarcato.

Diversamente, solo per i residenti metterei degli elicotteri gratuiti; riservati però alle emergenze o ai viaggi, perché anche gli isolani hanno diritto di viaggiare. Spesso farebbe loro anche un gran bene. In un’isola come Favignana il turismo è prevalentemente in mano a forestieri; sulla stessa isola la presenza mafiosa è massiccia, decine per esempio sono le confische di beni a Cosa Nostra (né c’è da stupirci vista la quantità di danaro che il turismo riesce a smuovere). Lascerei una sorta di autodeterminazione, invece, alle isole, senza ingerenze da chi ha soldi e può permettersi di ricattare chi non ne ha molti ma vive meglio.»

Antonio Pagliuso

Presentazione a Venezia. Foto © Elisa Manganelli