Recensioni: “King Kasai” di Christophe Boltanski

King Kasai è il titolo del libro-reportage di Christophe Boltanski, giornalista francese per Libération, Le Nouvel Observateur e Revue XXI, sull’Africa Museum di Bruxelles, ovvero il museo che racconta la colonizzazione del Congo e le atrocità commesse per volere del re Leopoldo II in quella vasta e ricca regione dell’Africa centroccidentale a cavallo fra la fine del Diciannovesimo e il principio del Ventesimo secolo. Racconta, al presente, perché nonostante l’ammodernamento degli anni scorsi che ha tentato di occultare quella stagione di sangue, i fantasmi dei colonizzatori e dei coloni riecheggiano ancora negli spazi dell’istituto museale.

Pubblicato in Italia da add editore con la traduzione di Sara Prencipe, il libro di Boltanski è uscito nel 2023 per l’editore parigino Stock nella collana Ma nuit au musée (La mia notte al museo), ideata e diretta da Alina Gurdiel e centrata sul racconto di una notte trascorsa in un museo a scelta da uno scrittore o una scrittrice. La collana a oggi conta diciotto titoli.

L’Africa Museum, il museo della colonizzazione

Il museo scelto da Boltanski è attualmente chiamato Africa Museum – Royal Museum for Central Africa, ma è nel nome delle origini che va enucleato l’autentico spirito col quale il museo di etnografia e storia naturale è sorto. Il Museo del Congo belga – questo il nome originario – aprì i battenti a Tervuren, pochi chilometri fuori Bruxelles, nel 1897, in occasione dell’Esposizione internazionale. L’obiettivo era fare sfoggio delle imprese coloniali del monarca.

Il museo è suddiviso in quattro sezioni che conservano reperti, documenti, esemplari naturali – come l’elefante King Kasai che dà il titolo al testo, il gigante della foresta abbattuto nel 1958, due anni prima che la Repubblica del Congo dichiarasse la sua indipendenza dal Regno del Belgio, “per il beneficio e l’edificazione del genere umano”. Oggetti di conquista ancor prima che oggetti d’arte, provenienti per la stragrande maggioranza dalla regione che oggi corrisponde alla Repubblica Democratica del Congo. L’istituto culturale, sul sito dei musei della capitale belga, è presentato come “un’istituzione leader per la ricerca scientifica sull’Africa”, il luogo perfetto per immergersi nella ricca storia del Continente Nero.

In realtà, la storia che racconta l’Africa Museum è – anche e soprattutto – ben altra.

“Dove mi trovo? Nell’antico Museo del Congo belga, nel Museo reale dell’Africa centrale o nell’Africa Museum? Non mi si propone più di scoprire un antico possedimento belga, nemmeno una regione, ma un continente nel suo complesso. Ci sarebbe molto da dire su queste formulazioni consecutive, sempre più vaghe, più indefinite, più includenti, come se ciò che si accumulava sopra la mia testa non avesse smesso, nel corso del tempo, di ingrandirsi, di ampliarsi fino a traboccare e ricoprire ogni cosa, al pari di un fiume uscito dal suo letto, mentre con tutta probabilità quei cambiamenti nella denominazione, dettati dalle circostanze, mirano a far dimenticare, o almeno a offuscare, il progetto iniziale: quello di un museo interamente dedicato a una colonia.”

Manifesto della Esposizione internazionale del 1897
Foto di Anonymous – https://salonvansisyphus.wordpress.com/tag/expo-58/ di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

King Kasai, l’analisi di un fenomeno storico

King Kasai esamina una parabola temporale estremamente delicata e il lettore non deve aspettarsi facili giudizi all’interno del volume: Christophe Boltanski racconta un periodo colmo “di colpe un tempo impensabili”, ché quei sovrani, quei militi, quegli avventurieri erano figli del loro tempo – tempo di espansionismi, di spartizioni di intere regioni sottosviluppate e quindi di attriti fra potenze, di fatti da lì a poco scoppierà, inevitabile, la Grande Guerra –, uomini che commettevano errori, come noi, e che non vanno pertanto giudicati come personaggi crudeli e basta – sarebbe troppo facile e sterile –, ma studiati nel complesso delle loro azioni, da approfondire, fare proprie affinché determinati errori si possano riconoscere e quindi impedire si ripetano.

Errori e orrori. Sì, perché la conquista del Congo da parte del Belgio è una vicenda fatta indubbiamente di orrori.

Il sogno di Leopoldo II

Momento cruciale di questa storia è il 1885. Alla Conferenza di Berlino gli Stati europei regolano i commerci in Africa centroccidentale e decretano la nascita dello Stato Libero del Congo (sic!), un territorio di 2.345.000 chilometri quadrati – quasi ottanta volte il piccolo Belgio e più grande di mezza Unione Europea di oggi – donato in esclusiva al re dei belgi Leopoldo II.

Al termine di quella che viene ricordata anche col nome di Conferenza sul Congo, il sovrano, che già dal 1877 aveva preso il controllo militare e politico del Congo, realizza un suo sogno: quello di ottenere la sua parte di Africa, come tutte le altre grandi nazioni del Vecchio Continente. L’imperialismo era di fatti un pallino del re: da tragico giocatore di risiko, Leopoldo in precedenza aveva già tentato di mettere le mani su un territorio d’oltremare da annettere al suo Belgio: aveva provato a comperare porzioni di Argentina, le Figi, Taiwan, si era trovato a imbastire una trattativa con la Spagna per l’acquisto delle Filippine.

In quegli anni a cavallo fra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, Leopoldo II fu l’artefice di uno dei genocidi più spietati e meno conosciuti della storia dell’umanità.

Leopoldo II del Belgio
Foto di London Stereoscopic and Photographic Company, The – Scansione personale di Carolus di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Lo zoo umano del re

L’Africa Museum, un nome che già aiuta a oliare quel meccanismo diabolico del nostro tempo volto a cancellare il passato, ripristinando la verginità di singoli individui, enti, partiti, popoli e nazioni, oggi rientra nel variegato ventaglio di attività – altrimenti chiamate esperienze – che le agenzie di viaggio propongono ai turisti in visita nella capitale belga, ma in quegli anni era fra i più visitati luoghi della cultura della nazione, perfetto per soddisfare la curiosità voyeuristica di quegli uomini che non vedevano l’ora di ricevere plastica conferma circa la superiorità della loro razza, guardando i reperti di un mondo primitivo e financo assistendo agli spettacoli di alcuni esseri umani sradicati dalla loro terra d’origine agitarsi come primati nei recinti dello zoo umano voluto da Leopoldo. I bambolotti di carne del re ballano, cantano, fanno battere le dita sul tam-tam suscitando l’entusiasmo e l’ilarità degli europei che li guardano come si guarda un fenomeno da baraccone o un animale esotico impegnato in qualche acrobazia.

“C’è chi esibisce al pubblico orsi o scimmie ammaestrate. Il secondo re dei belgi esibiva esseri umani.”

Qualcuno, nel tentativo di ringraziare del penoso spettacolo, lancia a quelle “bestie rare” in gabbia delle banane e delle noccioline, tanto che l’amministrazione del museo a un certo punto è costretta ad affiggere un agghiacciante cartello: “Non date da mangiare agli indigeni, ce ne occupiamo già noi”.

Uomini bianchi in Africa

Non soltanto il racconto dell’annullamento totale della dignità umana, la visita notturna al museo di Christophe Boltanski ci guida lungo la stagione di efferatezze perpetrate sulle popolazioni indigene del Congo proprio nel Paese tagliato a metà dalla linea dell’Equatore.

In quegli anni, il selvaggio Congo attira cacciatori, esploratori, avventurieri, nobili decaduti, rampolli della media borghesia, ma pure disoccupati, individui senza fissa dimora, sbandati e contadini in cerca di fortuna, ché “la condizione dell’uomo bianco in Africa permette di essere più di sé stessi. Consente di incarnare un impero, una civiltà, un dio”. Nello stato africano tutti cercano un’impresa che possa dare un senso alle loro sciape esistenze, tutti a caccia di avorio e caucciù, ma anche di oro, cobalto, stagno, coltan, tungsteno, ricchezze che esaltano la bramosia dei belgi. “Il saccheggio del Congo è interminabile” ed è da questa sete di possesso che ha origine il genocidio dei popoli locali.

Lontani dagli occhi del mondo civilizzato, nell’assoluta certezza dell’impunità, “investiti del diritto di decidere della vita o della morte” dei sottomessi che li circondano, gli uomini del re sfruttano fino allo stremo gli indigeni nei boschi e nelle miniere, massacrano senza pietà chi si oppone al loro volere e mutilano per punizione i raccoglitori che si presentano con un raccolto di caucciù inferiore alla quota giornaliera fissata.

I conquistadores belgi

Fra le sale del museo, ristrutturato e riaperto nel 2018, all’apparenza depurato da ogni crimine, l’autore dell’opera incrocia marmi e bronzi di ufficiali dai nasi affilati e baffoni a manubrio – su tutti il busto scolpito nell’avorio di Leopoldo II –, spalline a frange e postura da padroni: “Sono conquistadores, come Cortés o Pizarro, animati dalla stessa sete di ricchezza e di gloria […] hanno esplorato spazi immensi e assoggettato milioni di esseri umani grazie alla superiorità delle loro armi e, più ancora, grazie alla sorpresa e allo sgomento che suscitavano”.

La scoperta delle atrocità in Congo

Nella seconda parte del libro, Boltanski rende il giusto tributo alle persone che per prime denunciarono le violazioni dei diritti umani commesse dalle milizie reali nel segreto della fitta foresta congolese. E lo fa attraverso la scoperta di alcune fotografie scattate nel 1904 dalla missionaria e fotografa documentaria inglese Alice Seeley Harris, immagini oltremodo crude che permisero alle disumanità che si susseguivano nell’indifferenza generale in Congo, al terrore instaurato da Leopoldo II e dai suoi galoppini, di uscire fuori dai confini della proprietà privata del sanguinario sovrano. Anche grandi scrittori diedero il loro contributo affinché fosse levato il velo sulle atrocità dei belgi in Congo; fra questi: Joseph Conrad, Arthur Conan Doyle, Anatole France e Mark Twain che nel 1905 scrisse il pamphlet Soliloquio di re Leopoldo.

La colonizzazione dell’Africa, un conto rimasto aperto

In King Kasai, Christophe Boltanski rivisita gli angoli più tetri della storia dell’Occidente, la nostra storia, fruga nel nostro cuore nero riaprendo il tema dimenticato del colonialismo europeo – un conto aperto, che non abbiamo mai saldato –, un’onta impossibile da sanare, come è impossibile “decolonizzare”, fare ritornare “vergine di ogni passato” un luogo, l’Africa Museum, nato calpestando la dignità umana e a costo della vita degli ultimi della Terra.

Antonio Pagliuso