Dopo averci condotto nel cuore dell’Asia e delle ex repubbliche sovietiche, con “La vita in alto” Erika Fatland ci porta in Himalaya, sul tetto del mondo.
Ci ha accompagnati nel cuore delle ex repubbliche sovietiche e lungo buona parte della sterminata frontiera russa, dai remoti Terra di Francesco Giuseppe a Capo Dežnëv, da Pyongyang alla Lapponia, lavori che le sono valsi, nel corso dell’ultima edizione del Festival della Letteratura di Viaggio, il prestigioso Premio Kapuściński per il reportage internazionale. Erika Fatland ritorna nelle librerie italiane con un nuovo emozionante reportage; ne La vita in alto (edito Marsilio con la traduzione di Sara Culeddu e Alessandra Scali), la scrittrice e antropologa classe 1983 di Haugesund, Norvegia sudoccidentale, ci porta sul tetto del mondo, alla scoperta di un pezzo di globo esteso in verticale quanto in orizzontale e ancora poco conosciuto per noi occidentali.
“Quali storie di vita, quali civiltà si nascondono lassù, fuori dagli itinerari battuti, in cima alle valli e nei villaggi di montagna dai nomi suggestivi?”
Erika Fatland e l’impenetrabile Himalaya
Con Erika Fatland raggiungiamo il Pakistan, il Myanmar – già Birmania –, l’India, il Bhutan – la terra dei re drago, il solo regno himalayano rimasto in vita –, il Nepal e la regione autonoma del Tibet, riuscendo a addentrarsi in realtà il cui accesso è al limite dell’impossibile, specie per il lettore uomo. Di fatti, grazie al suo genere, nel corso dell’ardimentoso peregrinare la reporter scandinava riesce ad avere accesso a spazi preclusi agli uomini, nelle comunità più arcaiche nascoste lungo gli anfratti della catena dell’Himalaya, area a lungo inespugnata e sognata dall’autrice fin da bambina, quando la scoprì attraverso le spericolate avventure di Paperino.
I problemi burocratici del viaggiatore moderno
Nel volume ripercorriamo le tappe del viaggio lungo otto mesi della Fatland, stupendoci insieme a lei e affrontando le sue stesse difficoltà, in primis le moderne problematiche del viaggiatore d’oggi, per il quale è facilissimo pensare e organizzare gli spostamenti – basta appena un clic –, mentre è maledettamente complicato e sovente pure sconfortante, uscire vivo – ovvero con le carte in regola – dalle forche caudine messe a punto dalla burocrazia dei vari paesi.
“I tempi in cui le carovane potevano attraversare liberamente frontiere e passi di montagna sono solo un lontano ricordo. Si sente ripetere che il nostro è un mondo sempre più piccolo, senza più confini, ma in realtà le frontiere non sono mai state tanto rigide come ora.” Parole cui è difficile controbattere.
Le decine di etnie himalayane e i problemi climatici
Tra uiguri, hàn, wakhi e altre decine di etnie sparse qua e là nella regione himalayana, anche tra le pagine di questo nuovo ammaliante reportage, Erika Fatland spazia dalla geografia alla storia – quell’“estenuante girotondo tra distruzione e ricostruzione” –, alla geopolitica. Grande attenzione anche ai temi caldi del nostro tempo come l’inquinamento della natura – si pensi che le acque del sacro Gange, uno dei fiumi più inquinati del pianeta, sono utilizzate per abbeverarsi e lavarsi da oltre mezzo miliardo di persone tra indiani e bangladesi, circa il 7% della popolazione mondiale – oppure lo scioglimento della massa glaciale che sta scomparendo pure lì dove pare impossibile ciò possa avvenire, vale a dire sull’Himalaya.
Everest, K2, Annapurna: il club degli “ottomila”
E dunque l’Himalaya: Erika Fatland raggiunge l’Everest, la vetta più alta del pianeta con i suoi 8848,86 metri sul livello del mare, ma oltre al Chomolungma (il nome tibetano del monte, che significa letteralmente “madre dell’universo”), il viaggio dell’ardita reporter tocca altri picchi del ristretto club degli “ottomila” come il K2, Nanga Parbat, la Montagna assassina, Annapurna e Kangchenjunga, e anche altopiani, valichi di frontiera, ghiacciai, villaggi quasi fantasma, regni di montagna scomparsi in cui fa gli incontri più disparati. L’autrice parla con asceti, attivisti, ribelli, nomadi, monache tibetane, sciamani, si imbatte in una babele di minoranze e religioni – buddisti, induisti, islamici, cristiani – e ci fa capire ancora una volta, riprendendo le teorie dell’antropologo Fredrik Barth, che è solamente sul confine e attraverso l’incontro con l’altro che si forgia “l’identità e la consapevolezza della propria cultura”.
Di fatti, non è soltanto un viaggio fisico quello della Fatland: c’è anche una intensa componente sentimentale, alla scoperta di luoghi che ricorda con nostalgia, come l’impenetrabile Tibet e la rigogliosa, isolata e turbolenta valle del Kashmir, la regione storico-geografica collocata nella parte settentrionale del subcontinente indiano e contesa tra India e Pakistan; una polveriera in cui i conflitti sono sempre dietro l’angolo.
Il viaggio: irrinunciabile necessità
Ne La vita in alto, entrato nella cinquina finalista del Premio Terzani 2022, Erika Fatland si conferma tra i più grandi talenti della letteratura di viaggio del nostro tempo. Si stupisce e stupisce il lettore, portando nel suo zaino da viaggiatrice una serie di domande: perché l’uomo sente il bisogno insaziabile di viaggiare? Perché non può rinunciare al viaggio in solitaria, necessità talvolta non compresa o, addirittura, soprattutto per le donne, fraintesa?
“Quando si viaggia insieme ad altri, fosse anche una persona sola, si finisce subito in una specie di bolla, un piccolo mondo privato. Viaggiando da soli, invece, si è in balia dell’ambiente circostante, si è esposti, nudi.”
E forse è questo il bello del viaggio: trovarsi esposti, totalmente vulnerabili allo sconosciuto mondo che ci circonda.
Antonio Pagliuso