L’immaginazione è tutto per Liberata, ragazza invisibile che crede davvero che un giorno la sua vita possa trasformarsi in quella dei suoi amati fotoromanzi. Ma la metamorfosi della protagonista del nuovo romanzo di Domenico Dara andrà verso tutt’altra direzione, alla ricerca della sua natura più autentica, smarrita nella “folla delle vite non accadute”.
“[…] la vita è un fotoromanzo a cui hanno strappato le ultime pagine.”
La metamorfosi. Che se non fosse già stato preso, incontrovertibilmente legato a uno dei capolavori della letteratura mondiale, “poteva essere un bel nome” per un libro: La metamorfosi. Ma può andare benissimo anche come frase guida nella lettura dell’opera che segna il ritorno in libreria, a quattro anni dall’uscita di Maliverno – fra i libri più interessanti del 2020 –, di Domenico Dara.
Liberata è il titolo dell’ultimo romanzo, fresco di stampa per Feltrinelli, dello scrittore nato a Catanzaro e cresciuto a Girifalco, luogo e tempo dei suoi lavori.
Liberata, ovvero la vita vera
Nome, Liberata, che è quello della protagonista della storia; Liberata Macrì, che col destino nel nome sogna che la sua esistenza possa percorrere i medesimi viali luccicanti, bearsi degli stessi prati in fiore delle trame dei fotoromanzi che divora, coi loro lieti finali a conciliare ogni attrito del passato. La ragazza vive mescolando la sua esistenza alle avventure patinate dei suoi eroi di carta, credendo i fotoromanzi perfetti manuali di istruzioni sulla vita, ma la vita vera è sempre più sfaccettata e meno predicibile di una storia congegnata attorno a uno scrittoio, matematicamente coerente con quanto accade: causa ed effetto, ancora causa e ancora una volta effetto. No, nella vita vera – l’unica – due più due non fa per forza quattro e il risultato può essere talvolta superiore, talaltra inferiore a quanto atteso, a quanto immaginato.
“Le piaceva trovare similitudini tra le sue giornate e le pagine dei fotoromanzi: non una storia intera, che non sarebbe mai capitata, ma particolari che accendessero fiammelle, creassero possibilità, che incrementassero il miraggio della sovrapposizione. Come se quelle pagine patinate fossero oracoli, fotografie allineate come tarocchi, che illuminavano bivi e raccontavano futuri.”
I fotoromanzi rivestono un ruolo primario nell’evolversi del nuovo romanzo di Domenico Dara. Quel fotoromanzo, quel racconto per immagini sovente liquidato come un sottoprodotto culturale, ma che nei turbolenti anni settanta – il decennio in cui è ambientato Liberata – era vendutissimo e lettissimo in Italia, in specie da quella popolazione che, attraverso le storie d’amore di Sabrina, Grand Hotel, Charme e Sogno, desiderava affrancarsi dagli scontri politici e ideologici dell’epoca, evadere dalla cronaca del terrore che scandiva lo scorrere di quel periodo: il 1970 tramonta con l’oscuro fallito golpe Borghese, il ’74 è l’anno della strage del treno Italicus, il ’78 quello del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, il 1980 – anno che storicamente chiude i cosiddetti Anni di piombo, spartiacque della nostra storia di italiani – è segnato dalle stragi di Ustica e della stazione di Bologna.
Gli anni della tensione
La tensione di quegli anni, seppur attutita, come una eco lontana, giunge anche nel paese di Liberata con le azioni eversive e terroristiche che da faccende all’apparenze distanti, riguardanti un’altra Italia, si trasformano presto in possibile quotidianità, una quotidianità che fa paura, da cui fuggire.
E per una persona come Liberata che crede “a tutto quello che non si vede”, in grado di mimetizzarsi perfettamente nei suoi giornali, diffidente verso gli uomini, la “fuga dalla realtà” non richiede un impegno così gravoso. Ma il crescendo di tensione, ottimamente dosato dall’autore, non risparmia nessuno e la vita vera sbaraglia presto il “mondo di carta e sogni” di Liberata, col suo carico di dolore, compromesso, inganno, menzogna, complessità, in una parola: imperfezione.
Confondere amore e vita
Così quando l’amore comincia a bussare, inatteso e impetuoso, al cuore ingenuo di Liberata, la ragazza, “ignara delle leggi che reggono l’universo”, dapprima crede di essere anche lei la protagonista di uno dei suoi giornali, trascinata d’improvviso nella Storia, dopodiché comprende che non può più permettersi di confondere l’amore con la vita, per dirla con Tondelli, ma che è giunta l’ora della metamorfosi, non quella degli insetti – presenze centrali nel romanzo –, spiegata nella teoria, ma quella pratica, la sua.
Attorno alla protagonista agiscono molti altri personaggi caratteristici come il padre Oreste, meccanico con una profonda passione per l’entomologia; la madre Agata, algida e timorata di Dio – “Non dimenticare che Dio ti vede in ogni momento” suole ripetere alla “perduta” figlia, che, perlomeno esternamente, non mostra di avere fede nell’Altissimo –, anticomunista e aliena da ogni ideale di progresso; Beccaria, sacrestano dal fisico da titano e i nervi fragilissimi, Zangari, misterioso scrittore anch’egli con la passione per le vite minuscole, invisibili, a noi incognite degli insetti, Glauco, l’edicolante segretario della locale sezione del Partito comunista, che cerca di guidare con buoni consigli la crescita di Liberata, la sua metamorfosi, e Luvio, l’indecifrabile ragazzo che della metamorfosi della giovane è materia innescante.
Un romanzo di formazione e suspense
In un contesto storico e sociale ben ricostruito, Dara inserisce due elementi che conferiscono al romanzo una decisa suspense, un costante presagio di drammaticità: una mano che decapita le statue delle Madonne e la voce di una radio locale – Radio Alternativa 71, “la radio dalla parte dell’umanità” – che aggiorna i concittadini delle vicende del piccolo centro di periferia in cui si svolgono i fatti, seppur nessuno sappia dove sia la sede dell’emittente e chi stia dietro il microfono.
Opera che assume una posizione trasversale nella produzione letteraria di Domenico Dara, Liberata è la “storia di una verginità che si difende”, delicato e al contempo potente romanzo di formazione sull’inevitabile estinzione del candore giovanile e sulla scoperta del lato feroce della vita e della sua vocazione sacrificale. Perché, come ci insegnano gli insetti, “talvolta per continuare a sopravvivere bisogna perdere una parte di quello che si ha, foss’anche la più cara e preziosa”.
Antonio Pagliuso