Cesare Pavese e la scoperta della sua America in un nuovo libro

Nutrimenti dà alle stampe La scoperta dell’America, una raccolta di scritti di Cesare Pavese, il Cristoforo Colombo della letteratura americana.

“In quell’anno, dissi, ero ancora in America”. L’America, tema ricorrente nella produzione di Cesare Pavese, un “vizio assurdo” che inaugurò con le traduzioni i primi passi dello scrittore nel mondo dell’editoria e ne chiuse la parabola esistenziale con La luna e i falò, l’ultimo grande capolavoro.

Appena pubblicato per le edizioni Nutrimenti La scoperta dell’America di Cesare Pavese, un saggio curato da Dario Pontuale (prefazione di Ernesto Ferrero) in cui sono raccolti articoli e scritti pubblicati da Pavese tra gli anni trenta e quaranta del XX secolo e incentrati sulla letteratura e la società di quel Nuovo Mondo che l’autore nato a Santo Stefano Belbo, proprio come Cristoforo Colombo quattrocento anni prima, ha scoperto.

Cesare Pavese è infatti l’autentico scopritore della letteratura americana che grazie a lui in quegli anni approdò in Italia. Con i suoi saggi, pubblicati dal 1932 sulla rivista Cultura, e le sue traduzioni Pavese contribuì fortemente alla conoscenza di grandi autori del Novecento.

È sua la traduzione nel 1931 del romanzo Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis, che l’anno precedente aveva ottenuto il premio Nobel (il primo autore americano a riceverlo); sono di Pavese le traduzioni di Moby Dick (1932) di Herman Melville, Il quarantaduesimo parallelo (1934) di John Dos Passos, Uomini e topi (1938) di John Steinbeck, David Copperfield (1939) di Charles Dickens e ancora di opere di Daniel Defoe, Sherwood Anderson, William Faulkner, Gertrude Stein.

Romanzi che influirono anche sullo stile di Cesare Pavese, essenziale, diretto, segnato da periodi brevi, una scrittura in evoluzione che diede una scossa al ritmo narrativo dell’autore che altrimenti sarebbe apparso più prossimo al romanzo italiano dei primi decenni del Novecento.

Grande appassionato del poeta Walt Whitman – cui dedicò la tesi di laurea in Lettere dal titolo Interpretazione della poesia di Walt Whitman, rifiutata dal primo relatore e infine discussa con il docente di letteratura francese –, Pavese ha riservato alla cultura americana un posto di assoluto riguardo nel suo cuore ombroso.

Lo scrittore langhetto è quindi da considerare un pioniere di quel “mito americano” che secondo molti critici proprio al principio degli anni trenta si stabiliva nella società italiana, illudendola, prima di subire un rapido declino nel decennio successivo. Scriverà lo stesso Pavese su L’Unità il 3 agosto 1947:

“Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti”.

L’America non perse però il suo fascino agli occhi dello scrittore; lo mantenne anzi fino ai suoi ultimi giorni di vita, quando Pavese incluse il mondo americano nelle vicende de La luna e i falò, con Anguilla, l’io narrante del romanzo, che ritorna alla collina natia dopo un soggiorno al di là dell’Atlantico, e quando l’intellettuale si dedicò alla scrittura di vari saggi critici sul cinema e a quella di molteplici soggetti che avrebbero visto come protagonista Constance Dowling – americana di New York –, suo ultimo tormentato amore cui lascerà la dedica shakespeariana alla Luna e i falò: “for C. / Ripeness is all”.

La maturità è tutto, quella maturità della quale si compiacque alla stesura dell’ultimo romanzo (“Pensieri precisi, nuovi, stilizzati, efficienti. Maturità”), ma che non bastò a salvarlo dal gorgo in cui era irrimediabilmente scivolato.

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A settant’anni da quell’ultima “bruttissima estate” che lo portò a togliersi la vita nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950, Nutrimenti, ispirandosi a La letteratura americana e altri saggi – l’antologia di scritti pavesiani redatta da Italo Calvino e edita nel 1951 da Einaudi –, ci regala un’opera sui grandi narratori americani raccontati da Cesare Pavese, l’uomo che li tradusse, l’uomo che li scoprì.

Antonio Pagliuso