Marta Petrusewicz e Carmine Pinto sulla Questione Meridionale, dal fallimento dei moti del ’48 al brigantaggioMarta Petrusewicz e Antonio Cavallaro a Sciabaca Festival (foto Antonio Pagliuso)

Come erano veramente le condizioni del Mezzogiorno prima dell’Unità d’Italia? E quanto di reale e di leggendario c’è nella storia del brigantaggio postunitario?

Sono temi assai discussi, con diverse letture e fortune, anche ora, in tempi di dibattito sulla autonomia differenziata, scelta che a detta di molti esponenti politici e analisti potrebbe ampliare il divario fra le due parti del Paese.

Se ne è parlato a Soveria Mannelli, nel corso della nona edizione di Sciabaca Festival, rassegna di viaggi e culture mediterranee, con due oratori d’eccezione: Marta Petrusewicz e Carmine Pinto.

Le origini della Questione Meridionale

Docente di Storia moderna all’Università della Calabria e alla City University of New York e autrice di Come il Meridione divenne una questione (uscito per i tipi di Rubbettino), Marta Petrusewicz ha analizzato la situazione nel Meridione d’Italia precedentemente all’Unità del Paese, dalla seconda metà del Settecento, periodo in cui nel Regno di Napoli vigeva un vivace culto della modernizzazione, una fase storica in cui l’intelligencija meridionale stimolava la popolazione, i sudditi dei Borbone, per estrarli dalle tenebre dell’ignoranza e della subalternità.

Una cultura frizzante, volta a svecchiare il Sud, che instillò nuove consapevolezze e desideri di emancipazione. Fu così che si arrivò alle sommosse liberali contro la monarchia borbonica del 1799 – i moti che portarono alla breve parentesi della Repubblica napoletana –, del 1820 e soprattutto del 1848, culmine delle rivoluzioni scoppiate per tutto il Vecchio Continente, trasformatasi nelle regioni del Sud Italia in una cocente illusione, la cancellazione di un sogno.

È dal ’48, da quell’epocale fallimento, che secondo Petrusewicz nasce un nuovo sentimento di sconforto delle genti del Mezzogiorno e la cosiddetta Questione Meridionale, una rappresentazione in parte fantasiosa e ingiusta, sicuramente pittoresca – termine in voga fra i viaggiatori del Grand Tour per descrivere il selvaggio Sud della Penisola – della cultura meridionale, dalla parte sbagliata del mondo, in contrapposizione diretta rispetto alla cultura più avanzata del Settentrione.

Il brigantaggio nel Sud dopo l’Unità d’Italia

Dalle origini della Questione Meridionale il discorso è passato al brigantaggio, tema affrontato da Carmine Pinto, professore di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno e curatore del volume Soldati e briganti (Rubbettino).

Un brigantaggio politico, organizzato dai Borbone col supporto dei notabili dei vari territori, dopo il 1861 e neutralizzato dalle forze militari reali entro il 1865, seppur fino al 1874 permanga qualche sparuto gruppo o singolo rivoltoso – del ’72 è il processo al brigante lucano Carmine Crocco, il cosiddetto Generale dei briganti.

Una fase storica a suo tempo derubricata dalla stampa e dall’opinione pubblica già sul finire degli anni sessanta del secolo, perciò non così consistente e determinante come successivamente si è voluto costruire.

La tematica del brigantaggio postunitario, però, sostiene Pinto, sfruttando un semplice e tutt’altro che estinto processo di creazione del risentimento – quello che poteva essere e non è stato per colpa di questo personaggio o di quella decisione – viene ripresa e cavalcata da una certa pubblicistica e abbracciata dal ceto che necessita di dare una giustificazione alla propria condizione non proprio agiata e di creare quindi una nuova identità, ché è facile “utilizzare il passato come strumento rivendicatorio del presente”.

Emblematico in tal senso è il caso di Pontelandolfo, centro del Beneventano, l’inventato “massacro delle truppe borboniche” dell’agosto del 1861, a pochi mesi dall’Unità, a opera di soldati del regio esercito del nuovo Regno unitario: l’invenzione di un mito.

Basta col vittimismo

Quelle immediatamente seguenti l’Unità del Paese al Sud sono vicende dolorose e al contempo affascinanti, epiche in taluni casi, ma da “lasciare dove sono”, suggerisce Carmine Pinto, perché riprenderle, rivangarle e magari financo revisionarle danneggia soltanto il Mezzogiorno e i meridionali, “alimentando il vittimismo e il provincialismo” che contribuiscono in maniera decisiva a bloccare ogni genere di progresso e sviluppo dei popoli del Sud.

Antonio Pagliuso