Partito dalla pigra realtà di provincia siciliana, Vitaliano Brancati (1907-1954) ha rappresentato in maniera tagliente, con amara ironia, la società italiana in tutti i suoi vizi. Travagliato a causa della giovinezza perduta dietro l’enfasi di regime, nella seconda parte della sua breve esistenza ha dato vita ad alcuni romanzi simbolo dell’Italia tardo fascista: Gli anni perduti, Don Giovanni in Sicilia e Il bell’Antonio.
Caustico, pungente, controverso, irriverente e originale. Leonardo Sciascia lo definì uno scrittore “diverso” nel panorama letterario italiano. Settant’anni fa, era il 25 settembre del 1954, moriva prematuramente Vitaliano Brancati, lo scrittore che ha raccontato tutti i vizi dell’Italia fascista e postfascista disvelando, attraverso la sua narrazione umoristica, un malvezzo: il gallismo italico.
“Qui tutti ce la facciamo! Anche io, io così come sono, vecchio e col diabete, se mi metto una donna sotto, mi sento l’animo di farle uscire le budella!”
Vitaliano Brancati, uno scrittore “diverso”
Nato il 24 luglio 1907 a Pachino, punta estrema della Sicilia sudorientale, Vitaliano Brancati si è distinto per l’acume e il sarcasmo dei suoi lavori che in certi casi andarono incontro alla censura della cultura del tempo.
Studente a Catania e, nel ’29, laureatosi in Lettere con una tesi su Federico De Roberto, la prima biografia di Brancati è segnata dalla adesione al fascismo. Adolescente, infatti, il futuro scrittore si lasciò tentare dalle sirene del regime di Mussolini per poi ripudiarlo in età più matura – assieme ad alcuni scritti propagandistici alla ideologia fascista dedicati, come l’opera teatrale Everest, edita nel 1931, “il primo felice tentativo di rendere drammaticamente il senso eroico dell’azione mussoliniana” secondo Telesio Interlandi che confezionò la prefazione.
Il distacco dal fascismo
All’inizio degli anni trenta, Brancati si trasferì a Roma dove intrecciò rapporti con letterati del calibro di Leo Longanesi, Alberto Moravia e Corrado Alvaro e pubblicò il romanzo filo-erotico Singolare avventura di viaggio. Uscito alle stampe nel 1934, il libro finì nella morsetta della tagliola della censura fascista per l’immoralità del suo contenuto. La censura del testo coincise di fatto con gli ultimi momenti del Brancati fascista, cesura che fu ratificata dalla stesura de Gli anni perduti, lavoro pregno di sarcasmo anti-regime e che lo stesso scrittore indicherà come il suo primo vero romanzo, primo passo verso quella cifra satirica che ne fissò la fortuna letteraria.
Professore di provincia – a Caltanissetta insegnò all’istituto “Manzoni” frequentato dal giovane studente Leonardo Sciascia –, redattore per periodici e giornali come Omnibus di Longanesi, La Stampa, L’Europeo e Il Corriere della Sera, Brancati fu anche significativo sceneggiatore. Fra i film in cui lavorò ricordiamo: Anni difficili di Luigi Zampa (1948), Vulcano di William Dieterle (1950), Viaggio in Italia di Roberto Rossellini (1953) e L’uomo, la bestia e la virtù di Steno (1953).
La lussuria nei romanzi di Brancati
Nelle sue opere Vitaliano Brancati descrisse i vizi, le morbose lussurie e le contraddizioni della Sicilia di provincia, nello specifico Catania – sfondo grottesco e pruriginoso dei romanzi Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio (uscito per Bompiani e vincitore nel 1950 del Premio Bagutta superando in un’accesa contesa La bella estate dell’indigesto Cesare Pavese e I falsi redentori di Guido Piovene) e l’incompiuto e uscito postumo Paolo il caldo –, una città piccolo-borghese e neghittosa, patria del gallismo, in cui “i discorsi sulle donne danno un maggiore piacere che le donne stesse”.
Il romanziere siciliano danzò con gli stereotipi del maschio latino: pelle bruna, baffi neri, petto villoso, capelli fissati indietro da chili di brillantina, amatore insuperabile, procreatore instancabile, inguaribile erotomane. Fimminari incalliti, smaniosi di fare e di raccontare – ma soprattutto di raccontare –, che, dal Don Giovanni in Sicilia al Bell’Antonio, dissipano il loro tempo perdendosi in racconti monotoni di flirt e incontri amorosi reali o immaginati e fantasticherie sensuali di ogni foggia, accettando passivamente o financo ignorando le ingiustizie e le trasformazioni della società tutt’attorno.
“Gli altri avranno la libertà, ma l’Italia ha le donne!”
Un grande narratore da riscoprire
Nell’intera opera brancatiana però emerge la satira amarognola verso una società genuflessa, prima al furore fascista, sedotta e congelata per vent’anni, poi dinanzi al conformismo dilagante del dopoguerra, ammaliata dalla fatua prospettiva di un’era di benessere e di uno stile di vita americanizzante, sia prima sia dopo frenata in ogni suo pensiero, tendenza e aspirazione che non fossero perfettamente allineati ai dettami delle due “dittature”.
Come ha scritto Concetto Vecchio nelle pagine di Robinson del 5 giugno 2021, nella sua carriera letteraria Vitaliano Brancati si è distinto come “grande fustigatore di ogni conformismo”: contro l’indolenza italica, l’ignavia, l’individualismo, la codardia, il camaleontismo, la stomachevole ipocrisia del “volemose bene”.
La morte improvvisa
Grande narratore del suo tempo, purtroppo poco letto e ricordato nel nostro, Vitaliano Brancati si spense, come detto, il 25 settembre 1954 a Torino, a causa di un intervento chirurgico mal riuscito. Lasciò la amata attrice di prosa trentina Anna Proclemer – sposata nel ’46 e da cui si era da poco separato –, la figlia Antonia e una eredità letteraria oggi, a settant’anni dalla precoce scomparsa, tutta da riscoprire.
Foto di collezione Lucio Sciacca – Lucio Sciacca, Catania anni trenta, Catania, Vito Cavallotto editore, 1983, p. 229 di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Antonio Pagliuso