Contro la dannosa retorica del borgo, gli spaesamenti e la necessità di incentivare nuovi appaesamenti, Vito Teti fornisce le sue istruzioni per non annegare nella inutile disperazione e nel rimpianto di un mondo scomparso e non più riacciuffabile e per costruire le basi fondamentali per guardare con fiducia a un mondo nuovo, presente e futuro.
“Ognuno di noi è nello stesso tempo dove si trova e dove vorrebbe essere.”
È questa scissione interiore, collettiva, la sensazione di essere fuori luogo nel luogo in cui si vive, di esilio patrio, il sentimento perpetuo di spaesamento e ricerca di nuovo appaesamento il fulcro degli studi di Vito Teti, già docente di Antropologia culturale all’Università della Calabria, tematiche percorse e analizzate nel corso della sua carriera di saggista, fra i più apprezzati del Paese per quel che riguarda l’antropologia.
Classe 1950, Vito Teti è rappresentante della prima generazione – quella del Sessantotto – che ha potuto beneficiare di un accesso più facilitato, meno esclusivo agli studi. Uomo che ha traversato tre epoche: quella agraria in cui è nato, quella moderna in cui si è formato e quella post-moderna di oggi. Autore de La restanza, libro edito da Einaudi e che ha riscosso un grande successo di critica, Teti firma una nuova opera, appena uscita per i tipi di Donzelli, dal titolo Il risveglio del drago. Cavallerizzo: un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione.
Un Sud sempre più vecchio e disabitato
Gli indici demografici sono impietosi e non mentono. Il Meridione d’Italia è una terra sempre più spopolata e sempre più vecchia; in più, il calo demografico, secondo tutte le previsioni, non si placherà nei prossimi decenni. Alcuni studi – purtroppo credibili – hanno financo previsto per certi paesi, a oggi popolati da poche centinaia se non decine di resistenti, la scomparsa già nel prossimo decennio. Un disastro.
Un Sud, quindi, che resta malservito, periferico, poco interessante per il governo centrale, destinato a essere ancora percepito come un peso morto, senza speranza, su cui ogni investimento, grosso e concreto, risulterebbe a perdere.
Esistono soluzioni? Qualche iniziativa, più o meno efficace, più o meno isolata e disordinata, s’è vista, ma non bastevole a smuovere la Bassitalia dalla passività e dall’immobilismo, di certo non rivoltati da proposte estemporanee come l’iscrizione del proprio paese sulla via del decadimento al concorso di borgo dei borghi dell’anno.
Il Meridione d’Italia ha bisogno di nuove politiche pubbliche di risorgimento, di riqualificazione dei luoghi e della natura attorno o in cui i luoghi si trovano, anche in una ottica di prevenzione che in determinate aree dello Stivale è quanto mai essenziale; mosse capaci di vedere, immaginare, programmare il futuro, e non di vacue passerelle mediatiche che non portano a un tangibile risanamento e a un duraturo sviluppo.
I borghi, realtà che non esistono
Protagonista dell’incontro inaugurale di Diaspéiro – Festival Migrante, sotto la direzione artistica della scrittrice Angela Bubba – dal 16 al 28 settembre a Mesoraca (provincia di Crotone) –, Teti manifesta tutta la sua disapprovazione verso la retorica dei borghi, la ridondanza delle radici, la melassa della “riscoperta”, dello stravolgere l’autenticità dei luoghi nel goffo e mal ragionato tentativo di dare loro una nuova vita, scopiazzata altrove.
“Borgo è qualcosa di inventato, di inesistente, di mitizzato”, sostiene l’antropologo e scrittore di San Nicola da Crissa, una creazione artificiale di un passato che in realtà non c’è mai stato, amo buono appena per ingannare sprovveduti turisti alla ricerca di “esperienze” esotiche, da allietare per una o due settimane in agosto, ché poi per gli altri, per chi resta, per chi il paese è, “Dio provvede e Maria prega”.
La vita immaginata nei borghi
E se “il paese è luogo di memorie, il luogo dei defunti, il luogo del tempo, delle relazioni, dei ritorni”, il posto e il tempo del necessario, il borgo è invece un posto astorico, fuori dal tempo e dai bisogni, un non-luogo “che fa parte dell’immaginario di chi vive male nelle città”, l’idealizzazione carica di enfasi di un posto in cui, in potenza, andare un giorno a vivere, ma che in vero non esiste – un ideale, appunto –, come non esisterebbe, poi, nel momento della possibile decisione, la volontà di mollare tutto e trasferirsi in un “borgo dei borghi” dell’Italia profonda, il Paese che è stato – e che magari un giorno sarà.
Trasferirsi ad Apice, nel Beneventano, il più grande dei paesi fantasma d’Italia, nella mitica Roghudi, nell’Aspromonte, il paese delle anarade e delle rocce sagomate dal vento e dalla pioggia, oppure negli oramai set cinematografici di Craco e Pentidattilo. Ex abitati sospesi, traversati solamente dagli spiriti del passato, caduti sotto i colpi dei disastri naturali, dell’inurbamento, dei dettami dell’assimilazione e dell’omologazione culturale del secolo scorso.
Realismo, non idealismo
Immaginare paesi presepe, o più laicamente luna-park per il divertimento, le scampagnate fuori porta domenicali, i servizi fotografici cool, la insincera perorazione della “vita lenta” (purché sia quella degli altri, per carità!): un impegno, un dispendio inutile di energie, ché ci si potrebbe semplicemente sforzare di riappropriarsi del paese, delle proprie relazioni antiche, quelle reali, non idealizzando l’impossibile ritorno a un buon tempo andato, ma facendo i conti con gli inevitabili mutamenti della società e della storia, con i nuovi equilibri instaurati.
Ha scritto Vito Teti: “[…] se una nuova comunità è possibile e auspicabile là dove esisteva l’antico paese, questa comunità comunque deve essere riorganizzata e inventata tenendo conto di fughe, abbandoni, ritorni e anche di mutate forme di produzione e rapporti sociali”.
Nuovi appaesamenti
Proseguendo nella relazione al festival che si concentra sulla dispersione e sulla ricostruzione di popoli e paesi, temi centrali nel lavoro di Teti, nella sua ricerca del “senso dei luoghi”, per citare un altro suo scritto, l’autore porta a riflettere sui nuovi appaesamenti, istruzioni per salvare le migliaia di “schegge di un universo esploso”.
Il caso Cavallerizzo nel nuovo libro di Vito Teti
Un universo esploso, una porzione di Paese che frana, che muore inesorabilmente, tirando giù nel gorgo le proprie tradizioni, i propri particolarismi territoriali, il proprio tessuto di legami sterpati, come accaduto a Cavallerizzo, il paese al centro della vicenda analizzata nelle pagine de Il risveglio del drago.
Nucleo arbëreshë del comune di Cerzeto, nel Cosentino, Cavallerizzo è stato cancellato da una storia iniziata con una calamità ambientale – lo smottamento del 7 marzo 2005 – e conclusa con una catena di menzogne e illusioni che hanno portato il paese di Kajverici – questa la denominazione in lingua albanese d’Italia – a essere dichiarato inabitabile, di fatto congelato a quella giornata di basso inverno di vent’anni fa.
Deportati nel paese nuovo, dirimpetto al corpo immoto del vecchio, da allora i kaivericiotët vivono in un luogo senza identità; una situazione promessa come temporanea o parallela e alternativa alla realtà già esistente, divenuta invece definitiva, secondo il peggiore spartito della gestione della criticità in Italia, il Paese del giorno dopo.
Condotte che allontanano sempre più quel risorgimento culturale di cui la Calabria, così come altre aree del Centrosud, inerti, svuotate, condannate a una fissità sempiterna, avrebbero bisogno vitale, per promuovere una “restanza” in tensione, attiva, scelta e legittimata.
Antonio Pagliuso