Recensioni: “Cosa rimane dei nostri amori” di Olimpio Talarico

Olimpio Talarico dipinge con sentori crudi e antichi una Calabria che probabilmente non c’è più nel suo romanzo Cosa rimane dei nostri amori.

Non è facile trasporre in letteratura i misteri di un’altra epoca e le loro atmosfere – per alcuni lettori già lontane anni luce – in una Calabria che forse ormai non esiste più, ma nella quale ha le sue radici profonde la terra dove oggi viviamo. Talarico lo fa in Cosa rimane dei nostri amori (Aliberti, 2020), ricostruendone, attraverso il lessico, lo spirito. E lo fa grazie al dono di uno stile ricco e virile, uno stile denso di sapori, di odori, di sentori crudi e antichi. L’uso ampio di termini dialettali è ben inserito in una struttura letteraria tutt’altro che scontata, che li rende non solo comprensibili ma pregnanti.

La lingua di Talarico sa di terra e di sangue, come certi passi della migliore letteratura del posto, come i Latinoamericani. E come il corpo senza vita del giovane Saverio Marrapodi, trovato “scannato come un porco”, che dà inizio, quasi fosse il lancio di una trottola impazzita, a un giro di vite infinito. Ad essere stravolta non sarà solo l’esistenza del protagonista Jacopo Jaconis, ma anche quella di una serie di personaggi collaterali, che hanno tutta l’aria di conoscere bene la loro parte, in un romanzo denso di verità e di storia.

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Ciò che colpisce di Cosa rimane dei nostri amori è la padronanza con la quale Talarico muove le pedine delle loro vite e dei relativi collegamenti nascosti, dall’alto di una onniscienza che parte dalle parole per inglobare la società e la cultura del tempo, in un tutt’uno armonico che va ben oltre il brivido di suspense reso dall’intreccio di questo mistero di morte. 

Giulia De Sensi