“A Totò capitava di incontrare tipi come Franchino che non esitava a prenderlo in giro. Ehi!? Che vuoi fare la rivoluzione? Occupi le scuole, fai sciopero contro la guerra, la mafia, protesti di qua e di là. Che vuoi fare l’intellettuale dei miei coglioni? Quelli come te non sanno un cazzo della vita reale. Ricordati che quegli amici sono persone perbene. Hanno un codice d’onore e sono gente di rispetto. Qui lo sai che non cambierà mai niente e che le cose si sistemano solo se appoggi determinate persone anche in politica. Solo loro, quelli che tu sai, possono farci vedere un po’ di luce di paradiso. Qui il lavoro lo dà solo chi sappiamo. Anche quelli che tu reputi puri si rivolgano ai mafiosi come li chiami tu. Sei un ingenuo caro mio. Non hai capito niente. Se non c’è lavoro che c’entra la legalità? Qua la legalità la facevano solo i morti per questo non ci sono più.”
Ci potremmo fermare alla quarta di copertina di aMalavita di Antonio Cannone (Città del Sole Edizioni), potremmo non aggiungere altro. 352 pagine per racchiudere un’esistenza al Sud del Sud. Totò è un bambino curioso, troppo per quella sua cittadina che vorrebbe gli occhi cuciti come le bocche; si osserva dall’alto mentre sogna, immagina cosa possa esserci oltre quello che riesce ad acchiappare con lo sguardo. La periferia e il centro di quella che avrebbe tutte le carte in regola per essere una città ma che la mente umana ha deciso dovesse restare paese, una dicotomia geografica che si riflette nella mente dei suoi abitanti, una gabbia in cui stare stretti per volere altrui.
aMalavita è un atlante per i personaggi e la calabresitudine che ci accompagna: nessuna classe sociale è esclusa dalla storia, dalle stalle alle stelle ognuno di noi può trovare il suo omologo. Storia, non narrazione, ché ha fatto più danni il termine narrazione che i garibaldini. Cannone non racconta ma fissa un passato ancora troppo attuale, lo tramanda a dimostrazione che scendere a patti non è mai una buona soluzione, anche quando sembra sia l’unico modo per onorare una promessa di futuro. E a patti, in Calabria, ci sono scesi tutti, di compromessi se ne sono fatti e se ne fanno ogni giorno per quel futuro che è diventato presente, passato e trapassato nella sua immobilità e non ha cambiato la realtà attesa ma solo i volti di chi man mano si avvicenda, che sia un boss di ‘ndrangheta o che sia il politico di turno.
“Qua la legalità la facevano solo i morti per questo non ci sono più.” Dovremmo soffermarci sul termine ‘legalità’ e invece davanti ci appare ‘giustizia’ e poi ‘faida’, come se fossimo andati in cortocircuito linguistico. La faida e l’ordalia che abbiamo studiato come pratiche in uso alle popolazioni barbariche ma che ancora oggi fanno parte della nostra cronaca, solo che da noi non le applicarono neanche i Visigoti e gli Ostrogoti ché per i popoli latini mantenevano le norme romane. Eppure Totò cresce nonostante tutto, riesce a mantenersi pulito nella lordura di una società che vede seduti allo stesso tavolo il banchiere, il sacerdote e il povero disgraziato a spartirsi pane e finanziamenti fantasma, acqua e sangue da un calice amaro che il sacrificio non lo vuole più da un Cristo soltanto ma da un’intera comunità.
Totò è ognuno di noi che al mattino si fa il segno della croce con la mano manca e continua a sognare, anche a costo di essere l’ultimo degli illusi o il primo dei nuovi eroi.
Letizia Cuzzola