Recensioni: “Come essere un buon antenato” di Roman Krznaric

Quando abbiamo smesso di preoccuparci del futuro, di pensare che le nostre azioni di oggi avranno pesanti ripercussioni sul domani e per i decenni e secoli a venire? Da quando non costruiamo, pianifichiamo, agiamo considerando il futuro come qualcosa di possibile e in favore di chi ci succederà?

Sono interrogativi e riflessioni sviluppati nelle pagine di Come essere un buon antenato, il nuovo libro di Roman Krznaric. Il saggio del filosofo australiano di origine polacca prova ad affrontare il pensiero a medio termine, l’insano “presentismo”, concausa dei mali del nostro tempo.

Pubblicato da Edizioni Ambiente con la traduzione di Laura Coppo e Diego Tavazzi, Come essere un buon antenato conduce una sorta di indagine al termine dell’uomo, provando a capire quando abbiamo perso la capacità di programmare il futuro remoto, di pensare oltre, di edificare una civiltà più lunga del nostro ristretto tempo terreno, ma proiettata al prossimo secolo e al prossimo millennio?

Eppure certamente non siamo stati sempre così, noi sapiens.

Piramidi, obelischi, templi, chiese, monasteri, teatri, anfiteatri, ponti e acquedotti. E trabeazioni, antefisse, colonne, capitelli di ordine dorico, ionico e corinzio. Sono opere e monumenti, circoscrivendo la nostra analisi all’area del Mediterraneo, ancora presenti nel nostro tempo e che attestano il passaggio di grandi civiltà; lavori di millenni fa svolti da sapiens – sì, sapiens proprio come noi – che costruivano in considerazione del prossimo e che vivevano appieno l’arte, necessità espressiva da lasciare ai posteri, perché generare arte era generare luce su una intera civiltà.

L’ossessione dell’oggi

Quand’è che abbiamo perso questa lungimiranza, questa cultura illuminata, questa cura verso chi verrà dopo di noi, fra un anno, un decennio, un secolo, financo un millennio? Il processo è stato di certo progressivo, ma incessante, come l’avanzare del morbo del “presentismo”, male del nostro secolo e, perlomeno, di quello che ci ha preceduti.

L’epoca dell’oggi e soltanto oggi, vissuto come una ossessione, ha contagiato tutti col pensiero a breve termine, cannibale fin dalle sfere più alte, dalle stanze del potere. Anche la politica, certo, governi che si succedono mantenendo inalterata la miopia, patologia di una classe incapace di vedere oltre le prossime elezioni, schiavi del pensiero economico e del consenso d’oggi, ché poi domani si vedrà. È il “breveterminismo”, dice Roman Krznaric, una tendenza viziosa che, come un virus, ha circolato sottotraccia contagiando le masse. E per il quale non è in corso alcuna ricerca di un vaccino.

Siamo davvero interessati al domani della nostra specie?

Scivoleremo nella retorica, ma dobbiamo ammettere che siamo invischiati in un degrado sociale, morale, economico, ambientale senza una apparente via d’uscita, così disinteressati a lasciare di noi un buon ricordo, a immaginare il futuro, qualcosa di così remoto, che sicuramente non ci toccherà quindi perché dolersene?

Compito degli uomini di intelletto però è quello di fornire domande, anche se importano a una sempre più stretta cerchia: come possiamo essere buoni antenati? Siamo ancora in tempo per non farci maledire dai posteri a causa delle nostre azioni scellerate?

Oppure forse – e lo diciamo con terrore– dovremmo porci in primis un’altra domanda: a noi contemporanei interessa davvero che le generazioni future ci ricordino? e pure bene?

Antonio Pagliuso