Recensioni: “L’orizzonte del giurista” di Tommaso Greco

Nel proporre alcune riflessioni che muovono dalla lettura del volume di Tommaso Greco, L’orizzonte del giurista. Saggi per una filosofia del diritto “aperta”, da poco pubblicato dall’editore Giappichelli di Torino, anticipo una possibile questione, una di quelle probabili domande che potrebbero echeggiare nella mente di chi si appresta a leggere queste righe. Perché leggere un testo di filosofia del diritto e soprattutto perché scriverne, visto che solitamente questi aspetti non sono diretti o pensati per chi vive la propria quotidianità in una realtà apparentemente distante da certe questioni, per chi, come me, condivide la sua giornata con bambini piccoli, di scuola elementare e dunque dovrebbe sentirsi lontana da discorsi facilmente e giustamente catalogabili come “prettamente accademici”?

E ancora, ripensando a un detto, comune dalle mie parti: “Chista è fare filosofia, la realtà è un’altra cosa” (tradotto: parlare di concetti “astratti” senza alcuna ricaduta sulla realtà è qualcosa di prettamente inutile) – un detto sbattuto in faccia, soprattutto in campagna elettorale, a chi prova a guardare, a pensare, a raccontare il mondo con occhi diversi –, la domanda potrebbe suonare così: “leggere e scrivere di filosofia del diritto, a che serve?”.

Eppure, parole come diritti, giustizia, democrazia, cari alla filosofia del diritto, fanno parte dei discorsi di tutti. Eppure, parole come potere, conflitto, ingiustizia, – “occhi sociali di cristiani” (giudizi e pregiudizi della gente) –, cari ai filosofi del diritto, risuonano nei discorsi di tutti. Ancora: Parlarne e discuterne, non è cosa per la gente, perché parlarne, discuterne è fare filosofia, perché, perché… non è cosa ’ppi ttia. E qui sta, a mio avviso, il punto centrale del discorso di Tommaso Greco.

Punto che può essere riassunto in una frase che, qualche anno fa, trovai in un testo di Antropologia medica, che voglio citare: Santi, demoni, giocatori. Una etnografia delle pratiche di salute mentale di Massimiliano Minelli. La frase recitava così: “Come sempre sono le domande sbagliate, mai le risposte”.

 Ecco. Credo che la raccolta dei saggi presenti nel testo, centri la questione: a quali interrogativi può e deve rispondere chi si occupa di cultura giuridica? Quale ruolo la cultura giuridica occupa sulla scena pubblica, quale funzione, quale responsabilità riconoscere ai cultori della materia, ai giuristi, ai filosofi del diritto?

È questo il nodo centrale dell’intera raccolta, dove gli interrogativi, le riflessioni sul ruolo delle discipline, dei soggetti che ne detengono l’esercizio rispetto ai contesti storici, i principi analizzati, le visioni che Greco attenziona, trovano il giusto spazio: quello del confronto, quello del dialogo.

Nei saggi, infatti, a parlare sono gli autori a cui l’autore si affida, con i quali e attraverso i quali si dipanano i temi che egli affronta, senza la pretesa di dispensare verità, ma ponendo uno sguardo altro su concetti dirimenti, determinanti. E terribilmente attuali.

Ripensando alla domanda di una mia bambina di qualche giorno fa – “Maestra, perché gli uomini risolvono tutto con la morte?” – come non pensare alle pagine del libro dedicate al diritto immorale, al diritto che non serve; come non percepire quel filo che lega i diversi saggi: il superamento della dicotomia come approccio alle questioni, quale necessario passaggio per lasciare spazio alle possibilità altre.

Alla necessità di una filosofia del diritto che stia “sul confine, che occupi, cioè, lo spazio in cui si situa la porta che collega il sapere giuridico con la realtà, il sapere giuridico (e filosofico-giuridico) con altre forme di conoscenza”.

Come non evidenziare l’attraversamento dei saperi, con un linguaggio accademico sì, ma non cattedratico, con rimandi di natura letteraria e sociologica, quest’ultima più presente nei saggi che vanno dal XIII, “Modernità, diritto e legame sociale”, fino al XVII, “Tre piani. Note conclusive sulla filosofia del diritto (pandemico)”, con scritti più lontani nel tempo ma sempre legati a quelli più recenti.

C’è tanto in questi saggi, tanti gli spunti interessanti.

E mi fermo qui. Lo faccio citando Italo Calvino, il quale, a proposito delle sue Città invisibili, così scriveva: “il libro è nato un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo sulla carta, seguendo le varie ispirazioni. […] un pezzetto alla volta, passando attraverso fasi diverse. Ma tutte queste pagine insieme non facevano un libro: un libro (io credo) è qualcosa con un inizio e una fine (anche se non è un romanzo in senso stretto), è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare una via d’uscita, o magari parecchie uscite, la possibilità d’aprirsi una strada per venirne fuori”.

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In fondo una raccolta è un po’ questo. Forse è un po’ questo il testo di Tommaso Greco. Non un libro ma fasi e pezzetti che creano forme, tracciano vie. Porte socchiuse. Soglie. È la necessità di uscire dal recinto piccolo. È la necessità di respirare. D’Altro.

Maria Rotuletti