Sono tredici storie come stanze sospese quelle raccolte in Come neve di Giulia De Sensi che sembrano domandarci: quanto possiamo fidarci dei ricordi?

Una certa continuità tra amore vissuto e amore narrato, ma anche l’incompatibilità tra amore vissuto e amore narrato, sono il punto di partenza dei racconti che fanno parte di Come neve (Il seme bianco), con un ben curioso trait d’union da rintracciare nei viaggi intorno al vuoto, spazio bianco della pagina o buco nero della memoria, nei silenzi e nelle parole dalla stanza accanto, tra i particolari di storie d’amore, di formazione, di una più generale ricerca del senso della vita.

Ci sono gli incontri soprattutto, interrotti appunto da lunghi silenzi o dal continuo ricatto dei singhiozzi – la faccia premuta nel cuscino – e si susseguono tra le pagine storie di persone che riconoscono nella vita un’assenza, pare si riconoscano a vicenda, storie perfette dietro le carezze di una trama unica per tutte. Sono racconti diversi, con dei protagonisti diversi, eppure si legge un grido unico e muto.

Giulia De Sensi non dilata i testi di queste storie, ne ripete i gesti dietro la struttura del racconto breve, scoprendo con meraviglia che nonostante le lacune della brevità, i silenzi mancati, tutto funziona lo stesso, tutto sembra non perdere nulla. Come quando qualcuno decide di andare via, non fa dichiarazioni, non dà spiegazioni, né un sorriso né una smorfia, vado, dice, e tutta la struttura della storia regge silenziosa, ferma, a sentirlo andare via. Giocando con questa idea, con le separazioni e le distanze dal lungo racconto che tende a decifrare fin troppo, i temi dell’amore, della libertà, dell’adolescenza sono sfruttati ed esposti allo stesso tempo, e i veri protagonisti, “incagliati in quelle acque torbide e segrete, già del tutto dimenticate”, sono quello che non accade; ciò che sfugge non è il necessario ma il desiderabile.

Quelli contenuti in Come neve sono tredici racconti come tredici fotografie che immortalano quei personaggi tra le pareti di una casa tra libri e fiori o su una spiaggia “con gli occhi fra le stelle” ad attendere che il mito della sirena emerga come vero istante di realizzazione, o ancora in sprezzante introspezione ad auscultare il proprio corpo sussurrare di “un ospite indesiderato”, tra gioie e dolori, estasi e afflizione, passione e desiderio, e il senso della bellezza da trovare nelle semplici cose che restituiscono significato persino al respiro. In questi racconti aleggia dunque una sensazione di caducità, di qualcosa che resta in eredità di un tonfo nell’acqua, come quei cerchi che si dileguano e rimangono acqua dispersa, un tentativo labile di apertura alla vita, alla bellezza e alle sue tenere spine.

Leggi anche la recensione di Nostalgia di Vito Teti

Racconti come stanze sospese, quanto possiamo fidarci dei ricordi? Del resto “tutto si scioglieva, d’estate, a Limbadi” scrive l’autrice in un particolare reportage dalla Calabria, e non aveva considerato la resistenza di chi sogna di andarsene: il paese, la gente allegra, il sole, erano tutti inutili tra il freddo e la neve dentro.

Pasquale Allegro