Recensioni: “Nostalgia” di Vito Teti

In Nostalgia, edito Marietti, Vito Teti racconta un’altra nostalgia, anzi altre nostalgie, diverse “rispetto a quella intesa come confuso e ambiguo sentimento del passato” e proiettate verso un presente più autentico.

“Senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato: senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente.”

Vito Teti affida a Sant’Agostino il compito di introdurre il lettore nei temi di Nostalgia, il suo ultimo saggio pubblicato da Marietti. Nelle sue “notti lunghe e insonni”, Teti si interroga sul presente e il passato, immagina il domani e, sollecitato dal dottore della Chiesa cattolica e vescovo di Ippona, apre alle sue personalissime confessioni.

“Sono nostalgico” asserisce, non nascondendo quel sentimento, stimolante e inquieto allo stesso tempo, che lo accompagna fin dalla più tenera età per via della lontananza di un padre emigrato in Canada – o, ancor meglio, Canadà – e che fonde assieme alla melanconia e a una affannosa voglia di partire verso un altrove sconosciuto, di abbandonare il luogo in cui ci si è fatti “terra e paese”, come diceva il fortunatamente fragile Cesare Pavese, uno che sul tema della nostalgia ne sapeva qualcosa.

È una nostalgia primordiale quella narrata da Vito Teti, nostalgico di un passato non vissuto eppure perduto e di un futuro ancora da appalesarsi. Il docente di Antropologia culturale all’Università della Calabria prova a raccontare “un’altra nostalgia”, anzi altre nostalgie, diverse “rispetto a quella intesa come confuso e ambiguo sentimento del passato”, di ritorno agli anni andati, che limita ogni cambiamento e maturazione personale. Quella di Teti è una serie di nostalgie connesse al futuro, non adoperate per criticare in maniera sterile il presente, ma funzionali per cercare di comprendere il tempo che verrà.

Origini e sentimento moderno della nostalgia

Seppur percepito e conosciuto fin dal mondo antico, il termine nostalgia nasce soltanto alla fine del XVII secolo con lo studioso e medico francese Johannes Hofer che conia la parola dal greco nostos, ritorno, e algos, dolore, ma nella sua accezione più moderna viene fatta risalire a Immanuel Kant che la asportò da quella concezione di forte rapporto al luogo natìo per condurla al più vasto e inafferrabile legame col tempo perduto. Da Kant in poi il senso della nostalgia viene legittimato e nobilitato.

Teti, basandosi sulle riflessioni di questi e altri eminenti studiosi, analizza la nascita del sentimento moderno della nostalgia, vista un tempo come una malattia addirittura mortale che prevedeva le più strampalate cure: nostalgia finta – quella raccontata in modo confuso da chi non ha avuto necessità di andare, che non ha mai realizzato abbandoni o tradimenti –, nostalgia vera e patologica, vissuta e costruita; in sintesi nostalgia negativa e positiva: la prima quando si concentra, inconcludentemente, soltanto su un rimpianto che tiene ancorati a un ricordo senza permettere alcuno sviluppo; la seconda, invece, quando indica uno stato d’animo sereno e propositivo, che di quando in quando balza sì al passato, ma senza sofferenza. Nostalgici aspiranti a un presente più autentico.

“Allentare i legami delle origini, sottrarsi al loro peso, rifuggire da ogni retorica delle radici, vivere senza l’oppressione di antichi e perturbanti fantasmi è possibile soltanto se abbiamo memoria della nostra provenienza e appartenenza.”

Nostalgia tetiana che si accosta alla nostalgia pasoliniana con Pier Paolo Pasolini, acerrimo nemico dell’omologazione in cui si sarebbe scivolati dopo la sua violenta scomparsa, tra i più acuti osservatori e cantori del mondo rurale, di quel Paese in lotta tra cambiamento e tradizione. La nostalgia di Pasolini, di fatti, era legata a doppio nodo al timore di perdere gli antichi valori e di sprofondare in un imbarbarimento dell’umanità: visioni di “un testimone del suo tempo e un profeta del nostro”.

Il senso di colpa del migrante

Tra i capitoli più interessanti, tinti e profondi del saggio quello incentrato sul rapporto tra cibo e defunti – col rito del cosiddetto consòlo in cui i parenti e i vicini della famiglia del trapassato si impegnano a sostenerla dal punto di vista alimentare nei giorni del lutto – e quello titolato “Andare altrove” in cui Vito Teti si focalizza sull’emigrazione, uno dei temi fondanti e ricorrenti dell’opera, quella febbre di “andare all’America” che decimò il Mezzogiorno d’Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Una particolare forma di nostalgia colpì quelle popolazioni – sia chi partiva sia chi restava, custode di un mondo destinato a svanire –, genti che prima di trasformarsi in “Homo migrans” non si erano di fatto mai spostate dai borghi natii e che per secoli avevano avuto “come punto di riferimento il campanile della chiesa”. Immobili prima, mobilissimi dopo, ma mai in pace con se stessi; colpevoli di aver lasciato la terra dei padri e indesiderati nelle nuove cities al di là dell’oceano, estranei sia di là che di qua, “considerati italiani in America e americani in Italia”; una identità che Vito Teti stima doppia, come i paesi lungo le coste della Calabria, ruzzolati dall’entroterra verso le marine anche in seguito al ritorno degli “emigrati nostalgici” con il loro carico di nuove usanze e modi di vivere più all’avanguardia.

E da amante della Calabria, l’autore non può non riportare, un po’ qui un po’ lì nelle duecentosettanta pagine del volume, le riflessioni dei più importanti autori calabresi sui temi dell’erranza, dell’abbandono, dell’emigrazione, del ritorno, del senso di colpa del migrante e di quello di estraneità del ritornato: Saverio Strati, Franco Costabile, Francesco Perri, chiaramente Corrado Alvaro, scrittori locali e allo stesso tempo nazionali, mediterranei ed europei.

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“Camminare, viaggiare, restare: esserci ed essere insieme, sempre qui, sempre ‘dentro il luogo’, sempre ‘fuori luogo’. Non sarà che la nostalgia è davvero la natura dell’uomo e che egli sia condannato ad essa sia quanto parte sia quando resta”?

Vito Teti realizza un piccolo trattato sulla nostalgia, sul sentimento dei luoghi, dei nonluoghi e dei non ancora luoghi, in tutti i possibili significati e sfumature, in bilico tra utopia e retrotopia, per dirla con Zygmunt Bauman, “rimpianto per un mondo che muore e fiduciosa attesa di un mondo nuovo”.

Antonio Pagliuso