“Crepitio di stelle” di Jón Kalman Stefánsson (Iperborea) ha inizio nell’appartamento numero 54 della capitale dell’isola nordica.

Le stelle crepitano nel cielo d’Islanda. Illuminano il leggendario ghiacciaio di Vatnajökull, i fiordi, le vallate, i villaggi di pescatori, l’Est e l’Ovest, illuminano Reykjavík.

Crepitio di stelle di Jón Kalman Stefánsson – di recente pubblicato da Iperborea e tradotto da Silvia Cosimini – ha inizio nell’appartamento numero 54, in uno di quattro palazzi tutti uguali della capitale dell’isola nordica.

Un bambino di sette anni è alle prese con una sanguinosa battaglia che vede impegnati i suoi adorati soldatini, nemici sul campo ma pronti a difenderlo da ogni pericolo. Quel bambino oggi ha quarant’anni, si trova di fronte a quell’appartamento, in quel quartiere che era casa, e vuole – ne sente la necessità – ricostruire il proprio passato.

Così il protagonista, preso quasi letteralmente per mano da Stefánsson, ci racconta una storia famigliare che va dall’inizio del XX secolo fino ai giorni nostri attraversando l’intera Islanda. Percorrerla per arrivare a sé. Quattro generazioni, sei vite, centocinquant’anni e un marinaio dai capelli rossi.

 

Ne emerge subito un romanzo pieno di un amore tanto passionale – che fa a brandelli – quanto spirituale. Fil rouge che lega la turbolenta e straniante storia d’amore del bisnonno e della bisnonna, all’epoca diciassettenne, cui resterà sempre legato, a quella dolceamara del padre, manovale dei fiordi dell’Est che trova l’amore della vita in una ragazza indipendente e sognatrice, ma destinato a rimanere solo con un bambino da crescere. 

A ognuno di loro l’autore presta la propria voce. Con una scrittura decisa, senza fronzoli, ma gentile nel trattare con apparente semplicità di linguaggio temi e periodi storici importanti, racconta vita e dolori del quotidiano e il loro mescolarsi a puri momenti di felicità.

Riaffiorano così i ricordi e si concretizzano nelle belle descrizioni del quartiere: il panettiere Böðvar, il negozio Vogue e il suo paio di forbici sfavillanti, le partite a pallone, l’amicizia con Pétur, il bullo Frikki. E attraverso gli oggetti: un sasso che pare quasi un folletto addormentato e una conchiglia che risuona del Mare del Nord. 

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Sopra le loro teste le stelle continuano a crepitare mentre si cercano spasmodicamente le radici, il pensiero si fa scrittura della memoria e ricordare diventa un imperativo. Anche e soprattutto il dolore della perdita e dell’oblio che si fa silenzio e assenza come un autunno e un inverno, laddove la presenza della persona amata ricordava i mesi estivi.

Crepitio di stelle di Jón Kalman Stefánsson è narrativa ricca di poesia. Poesia nelle descrizioni dei paesaggi, dell’ineluttabilità del tempo che passa. Nel carattere debole, forse troppo sognatore, del bisnonno che vuol tutto ma nulla è mai abbastanza e non trova pace, e della forza della bisnonna che si fa carico di figli, fattorie, donne di troppo e diciassette anni alla finestra della soffitta.

Poesia nel ragazzo che guarda per la prima volta quegli occhi grigi e

“prima si sente un groppo in gola, poi si innamora. Senza preamboli. In maniera assoluta. O per meglio dire: il cielo gli cade sulla testa”.

Poesia, e assoluta maestria, nel modo in cui prende in prestito i panni, l’ingenuità e i pensieri di un fanciullo di sette anni che vede una madre mutare per una malattia che non le darà scampo, e lo lascerà solo lì a guardarne la tomba chiedendosi se laggiù riesca comunque a cantare.

Con Crepitio di stelle Stefánsson, già autore della trilogia Paradiso e infernoLa tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo, oltre ai Pesci non hanno gambe e Grande come l’universo, e del romanzo corale Storia di Ásta, ci regala un romanzo che è un invito alla riscoperta delle storie personali e dell’amore che ci lega gli uni agli altri. A prescindere da quale cielo stellato stiamo ammirando.

“Mi viene in mente che espressioni come «a casa» e «nostalgia di casa» si riferiscono in primo luogo al profondo desiderio di ritornare dalle persone che sentiamo legate a noi. […] Sarà corretta, la mia interpretazione? Non lo so, ma in tutta probabilità «casa» è al contempo la parola più tetra e più luminosa di una lingua. Per questo dobbiamo utilizzarla con giudizio”.