Recensioni: “Curare il mondo con Simone Weil” di Tommaso Greco

Abbiamo un conto in sospeso con Simone Weil (1909-1943), con la sua acuta capacità di indagine, con il suo sguardo inconsueto sulle cose, con le sue parole dal significato umano illimitato, con le sue analisi lucide e lungimiranti, con la sua ricetta di curare il mondo, attraverso una lezione da cui, a ottant’anni dalla sua morte, abbiamo ancora tanto da imparare. Abbiamo un debito nei confronti della sua riflessione profonda, permeata di indicazioni pratiche, rivolta a coloro che mostrano preoccupazione per le sorti del mondo e per quanti sono collocati dal destino tra gli ultimi degli ultimi.

Attraverso le pagine di Curare il mondo con Simon Weil (Editori Laterza), Tommaso Greco, professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, ci invita a confrontarci con l’attualità del pensiero di una donna che, nella prima metà del Novecento, ha percorso sentieri nuovi o poco battuti, pronta a scardinare una giustizia che, pur essendo fatta dagli uomini e per gli uomini, è divenuta incapace di essere umana, appunto.

È la proposta di una giustizia che va oltre, che guarda alla vita, prima che alla regola, e non in spregio al senso della norma, ma perché nella quotidianità c’è spesso qualcosa che alle regole sfugge. Essa non fa dormire sonni tranquilli e ci interroga incessantemente. Cura e giustizia si sostengono a vicenda e si compenetrano: l’esercizio della prima costituisce l’essenza della seconda e la discesa dell’io è condizione dell’ascesa del tu.

Curare il mondo con Simon Weil è una bussola per orientare il lettore tra le mutevoli vicende della drammatica storia del mondo e le alterne fasi dell’esistenza di Simone Weil. È un invito a leggere gli scritti della giovane filosofa francese, per cogliere una straordinaria testimonianza umana, dalla quale sgorgano motivi sconfinati di comprensione e di conoscenza di ogni essere umano. È uno studio necessario per una riflessione profonda e accurata su temi fondamentali per il diritto e la giustizia, fornendo anche indicazioni pratiche e attuative, perché nessun ordinamento statale può mai sostituire l’azione e gli effetti della cura o rendere superfluo lo sguardo dell’attenzione nei confronti di chi si trovi a essere giudicato.

Abbiamo sì una sorta di conto in sospeso con Simone Weil perché, se la sua pronta capacità di indagine ha ricevuto molta attenzione sul piano teorico e filosofico, nulla di fatto essa ha provocato su quello pratico e politico. Questo saggio è un viaggio nella vita, negli studi e nel pensiero, a volte mutevole, della filosofa. È una presa di coscienza sulla responsabilità del singolo e della comunità nei confronti degli ultimi; è l’indicazione di una via senza compromessi per una società civile che rifugga la forza come mezzo di affermazione. Abbiamo un debito nei confronti di questa donna, dei suoi occhi caparbi, capaci di cambiare prospettiva, di guardare oltre nell’altro, di sovvertire canoni sanciti dal tempo e dalla tradizione, anche iconografica. Ai simboli tramandati e ai loro significati consolidati ne sostituisce altri, che corrispondono a punti fondamentali del suo credo etico-religioso.

Se le immagini di cui è ricca l’iconografia ufficiale rimandano alla imparzialità, all’equilibrio e alla forza, i simboli da lei scelti ci riportano all’attenzione, alla decreazione e alla debolezza. E così la Giustizia si toglie la benda, abbandona la bilancia e la spada e indossa i panni del Buon Samaritano, perché non può essere giusta una giustizia che non vede la sventura e non sa ascoltare il grido disperato di chi si trova nel bisogno. “Giusta” è la decisione che si fonda su una conoscenza che penetra la superficie delle cose; che si occupa del particolare, al di là e oltre le aule di un tribunale, nell’immediatezza, nella quotidianità, nel nostro essere ed esistere qui ed ora. Essa non si realizza per il tramite di una norma, ma attraverso gesti concreti.

“Essere giusti vuol dire essenzialmente questo: spogliarsi di ogni potere, rinunciare alla possibilità di esercitare la forza che possediamo.”

E allora forse è necessario far della cura una scelta e della fragilità una virtù. Al di sopra di tutto e di tutti ci sia però la mitezza che, come Norberto Bobbio insegna: “È una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro. Il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé”.

Elisa Chiriano