Recensioni: “Il libro delle case” di Andrea Bajani

Settantotto capitoletti che sono come dei lampi, dei promemoria o dei trampolini, un andare avanti e indietro in un tempo immobile e frenetico che Andrea Bajani cristallizza nelle pagine de Il libro delle case (Feltrinelli), in corsa per il Premio Strega 2021.

Io, il protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Bajani, Il libro delle case (Feltrinelli), di case ne ha abitate tante e a tutte lega un ricordo specifico: dolce o amaro, un’epifania da ricordare con un sorriso o, per quanto dolorosa e traumatica, comunque impossibile da spingere nel macero della memoria.

Ognuna delle case della memoria di Io ha un nome: c’è la Casa del sesso, la Casa dell’adulterio, la Casa del materasso, ovvero la tipica casa per studenti universitari, tra umidità, acari e buste di cibo surgelato di marca invariabilmente ignota, in cui ha luogo “la messa in scena della fine dell’adolescenza”, e quella immancabile e famigerata dei parenti, ben distinta tra stanze di Parenti giovani e vecchi, con le bacheche colme di fotografie recenti le prime e con antiche cornicette d’argento raffiguranti i defunti le seconde.

Il percorso di Io comincia dalla placenta, l’ambiente primigenio, e si sviluppa per buona parte nella Casa del sottosuolo, la casa natia, nella quale si fa spesso ritorno, anche solo per il bisogno di ricordare o per sentirsi bambini, ancora un altro po’. Nella Casa del sottosuolo il piccolo Io vive con Madre, Padre, Sorella, Nonna e una testuggine, chiamata ovviamente Tartaruga – presenza costante dell’opera –, di qualche anno più grande di Io, che vive ancora più isolata degli abitanti umani della Casa, ancora più dostoevskiana, nascosta dentro il suo carapace, una casa indipendente, sobria, elegante e senza fondamenta, dal quale solo il ragazzino riesce a farla uscire.

Le vicende famigliari e sentimentali di Io sono stabilite dalle case, reali e metaforiche, in cui è vissuto; storie che si intrecciano presto con quelle dell’Italia, già dal 1975 con l’uccisione di Pier Paolo Pasolini (il Poeta del volume), evento coevo alla nascita del protagonista; toccano anche il 1978 quando Io, accovacciato sul pavimento, guarda l’immagine di quel Prigioniero (epiteto dietro il quale si cela l’onorevole Aldo Moro) che, ancora non lo sa, è stato condannato dal suo paese alla morte. Inevitabile.

“Durante i pasti parla la televisione, che invece tace se c’è Padre. Parla di un politico rapito, chiuso in un appartamento e condannato a morte. Si vede una foto dell’uomo che sorregge un quotidiano; serve per dimostrare che l’uomo – quello stesso giorno – è ancora vivo.”

Nel Libro delle case il salto da una casa all’altra prosegue senza sosta e arrivati alla fine – vale a dire al termine del volume definito dalla rilegatura dell’oggetto libro – non si commetterebbe peccato a tornare indietro in una delle stanze, specie in quelle in cui si è stati più felici, non per forza inabitabili come vorrebbe Cesare Pavese.

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Sotto i tetti del lungo peregrinare di Io e di Andrea Bajani si affronta il mistero, con le porte semichiuse, le stanze proibite e la cupa vicenda di Padre, costretto a murare viva la sua famiglia in una casa ai piedi delle Alpi, la nostalgia, l’ansia, la paura e il fastidio di vivere che pare accompagnare il protagonista.

Entrato nella dozzina del Premio Strega – e sinceramente, per stile, struttura e originalità, se dovesse trionfare non crediamo si svilupperanno isterismi collettivi e suicidi di massa in stile Masada anno 73 –, Il libro delle case si scopre un’opera poetica che svela il succo della vita, descritto e circoscritto da e a qualche metro quadrato. Ci ricorda qualcosa?

Antonio Pagliuso