Ne Il randagio e altri racconti (edito Carbonio), Sadeq Hedayat si conferma narratore atipico, privo di ogni forma di quell’“orientalismo” che tanto piace al lettore occidentale. Un mondo che attrae e respinge il lettore, esattamente nel modo in cui l’autore desidera che ciò avvenga.
Ad aprire la raccolta Il randagio e altri racconti di Sadeq Hedayat (Teheran, 1903 – Parigi, 1951), padre della letteratura iraniana moderna, una nota dell’editore in ricordo di Anna Vanzan, traduttrice iranista scomparsa prematuramente nel dicembre 2020.
Un ricordo affettuoso, carico di stima, riecheggia altresì nel pensiero che il nipote dell’autore le dedica in apertura, confermando quanto la profonda conoscenza che Vanzan aveva della lingua e della cultura persiane le abbia consentito di restituire in italiano alcune tra le opere più raffinate di Hedayt (sua la traduzione de La civetta cieca, sempre per Carbonio Editore, 2020) e di tante altre penne rappresentative dell’universo letterario iraniano.
L’Iran, questo sconosciuto. Terra ai confini del Medio Oriente e dello stesso mondo arabo, estranea all’uno e all’altro eppure a questi profondamente legata, ci seduce da lontano, restando in parte inaccessibile al di là delle cronache e di certe propagande politiche che del suo splendore, ahimè, restituiscono una visione sin troppo parziale.
Culla delle civiltà più ancestrali, patria universale della poesia, dalla quale provengono i versi sopraffini del grande poeta mistico Hāfez, originario di Shiraz, “Città della poesia” per antonomasia, e del poeta Sa ‘di; terra di romanzieri quali Iraj Pezeshkzad, che ho avuto già il piacere di recensire sulle colonne di questa rivista, e dell’amato Kader Abdolah.
Esponenti di un patrimonio letterario che traduttori quali Vanzan e altri appassionati iranisti hanno avuto l’onore e l’onere di far conoscere a un Occidente sin troppo pigro, afflitto da pregiudizio, di sicuro disavvezzo a guardare oltre le pagine della propria zona confortevole di tipo culturale.
Le novelle di Sadeq Hedayat non sono per questo genere di lettori, è bene chiarirlo subito. Privi di ogni forma di “orientalismo” e sensualismo nell’accezione in cui il grande pubblico potrebbe intendere la letteratura persiana, ovvero nel suo stereotipo, i nove racconti che compongono questa raccolta risulterebbero poco comprensibili, se non addirittura forieri di scandalo, agli occhi di un lettore occidentale medio che poco sappia del loro contesto di provenienza.
Non lasciamoci ingannare da passaggi suadenti, estremamente gradevoli, che tendono a catapultarci nella dimensione esotica, onirica, di una Shiraz addormentata…
“col suo dedalo di vicoli e stradine, i magnifici giardini e i vini color rubino; quando le stelle luccicano calme e misteriose nel cielo color indaco intenso”.
…e neppure tra le vie di Tus
“con le sue moschee, giardini e palazzi avvolti dall’oscurità”. Nella cui notte risuona “solo il suono lontano della campana di un cammello e la voce di un cantante distante” cullate dalla “leggera brezza che riempiva l’aria del profumo dei fiori di acacia”.
Il palcoscenico goloso degli olezzi, il turbinare di atmosfere che ci conducono comunque ai limiti di un mondo fascinoso non devono distogliere l’occhio consapevole, bene informato, che non giudica le altre culture a partire dai vincoli morali della propria, dalla realtà conturbante che l’autore intende narrare.
La realtà di un mondo antico, indecifrabile persino a se stesso, dove spose bambine custodite come tradizione preziosa – ecco lo scandalo di chi giudica da sé e per sé – acconsentono a perdere la verginità come un puerile gioco di infanzia, mentre si sussurra loro una fiaba; dove uomini proprietari di mogli, al pari dei beni materiali che queste portano in dote, le assoggettano al proprio volere finendo a loro volta schiavi, zimbelli delle stesse e dei loro finissimi intrighi, tra le grinfie di un matriarcato che usa l’astuzia e l’inganno al pari delle botte e della legge nelle mani dei patriarchi.
Un mondo che attrae e respinge il lettore, esattamente nel modo in cui l’autore desidera che ciò avvenga, così da svelare ogni sfaccettatura di un universo velato per definizione.
In un contesto simile, randagia è ogni anima che si affaccia alla narrazione vagando disperata, in cerca di qualcosa che le sfugge continuamente di mano, di un destino che si compie nel più sfavorevole dei modi, gettando un’ombra fosca, a tratti grottesca, sull’umanità e i luoghi che le fanno da sfondo.
La fotografia del disagio nel suo realismo, questo offre Sadeq Hedayat ai suoi lettori, tanto più a quelli occidentali, porgendo una tra le tante chiavi di lettura dell’Iran sino agli anni ’50. Le speculazioni odierne lo vogliono contrapposto ad altrettante temibili potenze, mentre il Paese mormora ancora tra sé:
“Rostam, un’armata intera contro di noi e un vecchio samovar!”.
Eliana Iorfida