Recensioni: “Il sortilegio” di Hermann Broch

Una narrazione al limite del fiabesco in un susseguirsi di figure retoriche della parola che raggiungono la maggiore amplificazione per riecheggiare in un’alternanza di contrasti e aumentando così l’efficacia del messaggio. Questo ciò che ci dona Hermann Broch (1886-1951), candidato al Premio Nobel nel 1950, che nel romanzo Il sortilegio, con la bivalenza narratore-sociologo che lo contraddistingue, intreccia descrizioni sociali e mistificazioni che hanno reso possibile l’avvento del nazismo; un’opera che torna in libreria con Carbonio Editore, introduzione di Italo Alighiero Chiusano e traduzione di Eugenia Martinez.

La voce narrante, un medico che si trasferisce in un villaggio alpino e decide di raccontare ciò che accade nell’ordinario vivere, quasi come nell’annotare sulle pagine di un diario, tutto quello che osserva e vive nella sua quotidianità, ma decide di iniziare in un giorno particolare, segnato da un’insolita nevicata che simboleggia una sequenza di eventi futuri anomali come la nevicata stessa.

La neve simboleggia purezza e candore, quindi serenità e speranza, ma in antitesi gelo e freddo, quindi solitudine, inquietudine e un greve malessere esistenziale, una contrapposizione che accompagnerà il lettore in tutto il racconto. Quale il sortilegio che cela tale anomala nevicata, questa intuizione che serpeggia in questo luogo incantato, tra il fiabesco e il magico, tra il religioso e il superstizioso, quale il sortilegio?

Lo stesso giorno della singolare nevicata sopraggiunge un uomo dai caratteri scuri, capelli ricci, alto, che poco lo accomunano ai locali, ma come la neve che si scioglie sul terreno e penetra il sottosuolo così il nuovo arrivato si insidierà nel villaggio, senza destare nessuna attenzione o preoccupazione, il nome di questo italiano è Marius Ratti. Un apparente viandante, senza meta, senza radici e con la continua curiosità di non fermarsi nel suo vagare, ma appunto questo è solo apparente.

Il ritmo della scrittura di Hermann Broch alterna descrizioni di scene di vita quotidiana comuni di una qualunque comunità, dagli incontri dei paesani all’osteria, non solo sede di ristoro ma anche di informazioni e chiacchere, alle celebrazioni di feste, ai riti (tra il pagano e il religioso) che tendono poi a descrivere l’integrazione tra essere umano e ambiente, in un equilibrio simbiotico determinato dalla reazione causa effetto di cui ci si può ritenere artefici o responsabili, un giardino luminoso che deve essere mantenuto tale da chi ci abita; questo il ruolo di cui si avvale Marius Ratti, che nel suo divulgare il proprio pensiero come comune, riuscirà ad allontanare dal villaggio il venditore di radio, un’innovazione ritenuta non appropriata per il quieto vivere degli abitanti, inondati altrimenti da troppe notizie o novità o musiche non idonee.

In questo gioco di equilibri si denota come si insinua la psicologia delle masse, intrecciandosi in un ciclo perpetuo che rivaluta nuovi significati anche al concetto di morte nascita o morte rinascita, a seconda della situazione e dell’interpretazione.  E nel cullarsi in questa sinuosa lettura si palesa al lettore un’indagine accurata e celata di un tema di cui l’autore ha il coraggio di scrivere senza riserve, in un apparente e semplice comunità montana: la psicologia delle masse ed il suo potere ipnotico, che ha condotto al consenso nei confronti del nazismo: lo stesso potere ipnotico che Marius Ratti ha sugli abitanti del paese. In questa scelta narrativa Broch riesce a esplicitare in modo chiaro e semplificato i meccanismi che attivano i comportamenti collettivi, manifestatisi nei primi decenni del Novecento.

Cosa distingue la folla dal singolo: la personalità del singolo viene quasi sopraffatta da quella di massa, che originando una sorta di anima collettiva riesce a concretizzare come reali il loro pensiero comune. Le folle sono definite meno inclini al ragionamento e più all’azione, perché spinte da moti casuali che non riescono a controllare con la ragione, mentre il singolo nel medesimo trasporto può riappropriarsi della razionalità, ma nel moto degli impulsi delle masse gli istinti crudeli o giusti che siano, predominano e diventano obiettivo comune e niente può ostacolarne la concretizzazione ed in questo moto perverso necessita un capo che diriga la folla.

L’elemento discriminante è la necessità di identificazione, l’omologazione, che nella nostra contemporaneità è imposta nei modi e metodi più occulti, questo veleno che vorrebbe rendere la collettività omologata ha un antidoto: il libero pensiero ed il libero arbitrio, supportato dall’istruzione, dalla curiosità di apprendere e scoprire la verità di noi stessi, della storia e delle nostre radici attraverso tutto ciò che ci circonda e ci appartiene, dall’arte all’ambiente.

Simona Trunzo