Recensioni: “La dolcezza dell’acqua” di Nathan Harris

La dolcezza dell’acqua di Nathan Harris (Nutrimenti, 2022) rientra a pieno nella letteratura classica americana: la Guerra di secessione, la schiavitù, i duelli nelle piantagioni e i buoni sentimenti spalmati fra scene orribili e crudeli di sopraffazione, spruzzate di buonismo e tocchi di American dream.

432 pagine tradotte male – al punto che per la prima volta per rispetto della professione che è anche la mia non citerò chi l’ha curata – e che capisco abbiano attratto Barack Obama fra i lettori (come citato in quarta di copertina) se non altro per le descrizioni dei paesaggi della Georgia.

Siamo a Old Ox, una cittadina lontana da tutto e desolata, distrutta e ricostruita più volte dopo incendi periodici (ne troveremo uno anche noi e dal sapore di nemesi…), un numero di schiavi liberati talmente spropositato rispetto alla grandezza del paese da creare interi villaggi alle sue periferie, proprietari terrieri che sembrano usciti da un film di Sergio Leone ubriaco e un tocco di omosessualità e omofobia che ormai è come il sale nell’acqua della pasta: irrinunciabile.

La storia è quasi semplice: i fratelli Prentiss e Landry sono stati liberati da poco, vagano nel bosco e incontrano George Walker che per tutto il libro viene crocifisso per il suo pessimo carattere (saremmo stati ottimi amici, George, don’t worry!) e per aver preso i due fratelli a lavorare nella sua fattoria.

Spieghiamo meglio: George viene a sapere che il figlio Caleb è morto in guerra (ma non è morto, risparmiate i fazzoletti per quando verrà voglia a voi di pestarlo sotto i piedi), la moglie Isabelle non gli parla più e lui decide di iniziare a lavorare per la prima volta in vita sua e piantare arachidi. Trova nel suo bosco questi due disgraziati e propone loro di assumerli finalmente come uomini liberi, con paga equa e giorno libero settimanale, vitto e alloggio e insulti dei vicini tutto in regola. Compresa la limonata a fine giornata. Landry ha perso l’uso della parola per le percosse subite durante la schiavitù, ha l’hobby del lavoro a maglia e si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Muore ché un morto ci vuole sempre per svoltare la storia e renderla angosciante al punto giusto, perché raccontare di un riscatto sociale, di redenzione di quel mondo gretto e crudele che finalmente ne imbrocca una giusta era troppo semplice.

Vi risparmio il seguito della trama ché altrimenti dovremmo uscire a puntate. Tirando le somme, l’unico personaggio coerente dall’inizio alla fine e che non vi verrà mai la voglia di prendere a ceffoni è l’asino che si accolla ognuno dei malcapitati quando la narrazione deve fare un giro.

Se avete letto Radici di Alex Haley, fermatevi a quello, non andate oltre sull’argomento perché vi verrà la sensazione di aver perso tempo. La dolcezza dell’acqua è come la ricetta della torta della nonna: gli ingredienti ci sono tutti ma non nelle giuste proporzioni per cui, tolta dal forno, vi ritroverete un mattone immangiabile e dal sapore di nostalgia di quel che avrebbe potuto essere ma non è stato.

Letizia Cuzzola