Recensioni: “Seconda persona singolare” di Pasquale Allegro

In Seconda persona singolare, una lunga lettera che non sarà mai spedita che narra i giorni dell’abbandono, Pasquale Allegro si conferma delicato artista della parola.

“Osservo le finestre, le ho lasciate aperte, troverò le stanze fredde, come al centro dell’abisso, ma bisognava scegliere tra il calore e la libertà e ho scelto la neve.”

Il colore è il bianco, la tematica è l’abbandono. In entrambi emerge – non emerge – una mancanza, mancanza che, per essere tale, implica però l’esistenza di uno spazio in precedenza colmo, occupato, di uno stato di compiutezza, di appagamento sentimentale ed esistenziale.

L’abbandono è come una malattia giunta all’improvviso e che una volta curata lascia uno strascico: il terrore che essa ritorni, che si ripresenti, che l’abbandono possa esserci inflitto ancora, anche da chi non immaginiamo neppure possa decidere, un giorno, di abbandonarci, di essere l’artefice del riacutizzarsi della nostra malattia.

Il tema dell’abbandono nelle pagine di Pasquale Allegro

Andrea, la voce di Seconda persona singolare, l’ultimo romanzo di Pasquale Allegro (Edizioni Ensemble), sì è riammalato: è stato abbandonato, ancora una volta. L’abbandono subito gli lascia un senso di non appartenenza, inerte dinanzi all’avvenimento che ne ha congelato le lancette dell’esistenza. Andrea è invischiato nella fase della negazione, dimensione sospesa in cui ripensa, elabora, crea e disfa l’amore perduto.

Chiara è scomparsa. Chiara, nome che rimanda al candore di un ambiente immacolato, alla lucentezza, al bianco. È scomparsa Chiara, si è dissolta in una nuvola, bianca anch’essa. E questo bianco – mancanza – per Andrea va riempito, ravvivato, come una penna che danza su un foglio pulito, esprimendo su di esso e con esso se stessa, donando al foglio un significato nuovo, un destino diverso, accompagnandolo a uno stato di finitezza.

Andrea è uno scrittore e attraverso la pagina cerca un dialogo per comprendere il valore del tempo dell’attesa, per convincersi, per tramite della poesia, che il legame tra sé e Chiara non si sia realmente spezzato, ma che la separazione sia soltanto “il verso interrotto di una poesia”.

“Ho bisogno di poesia, è triste vivere soltanto di realtà.”

Testardo nel cercare una ragione che lo aiuti a resistere alla mancanza, a sopportare il peso del bianco, Andrea si affida alla scrittura – ché, ne è certo, “se scrivo, qualcosa accade” – per non permettere che il dolore stritoli il cuore nudo e sperando che la sua passione non si trasformi in una beffarda “cella di carta”. Pensa all’amore tradito, quello invelenito e non curato, all’amore sciupato, a quello di sangue, a cui non si perdona niente, e a quello accaduto, che non hai scelto, quello che ti è capitato, un dì, voltando distrattamente a destra o a sinistra nel traffico delle giornate.

Risvegliarsi non più poeta

La voce narrante del volume rimpiange la sua accentuata sensibilità, ché desidererebbe “raccontare barzellette ai caffè e non percepire il mondo come magico”, risvegliarsi un mattino insensibile, non più poeta, ché, per dirla con Pessoa, il mondo appartiene a chi non sente e “la condizione essenziale per essere un uomo pratico è la mancanza di sensibilità”.

Si susseguono le diapositive, frammenti di attimi andati ma che restano impressi in una scrittura invasa di nostalgia e che non si lascia bruttare dalle offese della vita, dagli schiaffi dell’amore, seminato e bruciato. Una scrittura che plana in cielo, staccandosi dagli acquitrini malarici laggiù e descrivendo cerchi dove il ricordo – tiepido residuo, mielato osso di seppia – è unguento che lenisce le ferite, laddove la pagina è più leggera e la parola, più sincera, è libera dalle catene di un amore diroccato.

Leggi anche la recensione di Emersione di Benedetta Palmieri

In Seconda persona singolare, Pasquale Allegro si conferma delicato artista della parola. In questa lunga lettera che non sarà mai spedita, l’autore corre dietro alle parole, scegliendo sempre le più adatte, le più efficaci; mai un lemma che possa suonare stonato o apparire una forzatura, tanto che ci si domanda se il tutto sia il risultato di un minuzioso lavoro di cesello o il fiume in piena di uno stato di grazia narrativo che fa sì che le parole sgorgano naturali spandendosi al posto giusto.

Antonio Pagliuso