Recensioni “La ribellione di Michele Albanese” di Gabriella d’Atri

La ribellione di Michele Albanese è il titolo del libro che raccoglie l’intervista di Gabriella d’Atri con Michele Albanese, giornalista sotto scorta a causa dei suoi articoli volti a rendere noti gli affari criminosi delle ‘ndrine.

Violenza, paura, silenzio, omertà. Questa è la ‘ndrangheta che Michele Albanese ha incontrato; questa è la ‘ndrangheta che Michele Albanese descrive e affronta da trent’anni attraverso le colonne della carta stampata e delle testate online. La ‘ndrangheta, la mafia più potente del mondo, presente in quattro continenti, di cui il giornalista di Cinquefrondi, entroterra della provincia di Reggio Calabria, ha raccontato l’evoluzione negli ultimi cinquant’anni, dagli affari “rurali” del contrabbando di sigarette e del furto di bestiame ai grandi appalti pubblici e agli abbracci ferali con la politica.

Michele Albanese è un giornalista che si è esposto all’interesse delle ‘ndrine, raccontandone le trame criminali, e che dal 2014 si trova sotto scorta.

Una vita controllata, a metà, come quella di “un volatile al quale è stata tagliata un’ala”. Una storia che va raccontata e Gabriella d’Atri, giornalista RAI, si è presa l’onere di farlo per sostenere un uomo coraggioso in prima fila in un cammino collettivo senz’altro di opposizione alla criminalità organizzata, ma anche di speranza.

La ribellione di Michele Albanese è il titolo del volume pubblicato da Castelvecchi che raccoglie l’intervista di d’Atri con Albanese e altri contributi di Carlo Verna, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, e don Luigi Ciotti, fondatore di Libera contro le mafie.

Dal lavoro emerge che scrivere di ‘ndrangheta non porta soltanto rischi provenienti dai bunker dei capicosca, ma anche dalle strade del paese, dagli ambienti prima amici e poi diventati ostili. Scrivere di ‘ndrangheta è ribellarsi a una intera cultura, non arrendersi alle ingiurie e alle calunnie lanciate contro un mestiere, quello del giornalista, che al Sud fa troppo spesso rima con infame o spia al servizio delle forze dell’ordine. Un continuo attacco volto alla delegittimazione di chi ha “macchiato” il nome del paese facendolo comparire in prima pagina su tutti i giornali. Un destino paradossale, amaro, che scandisce le giornate “mediate” di Michele Albanese e della sua famiglia – una moglie e due figlie che gli sono rimaste accanto fin dal primo momento.

Un destino a cui tenta di sottrarsi la stessa Calabria, una terra “sempre in fuga da se stessa” per dirla con Corrado Alvaro, percepita, purtroppo non soltanto al Settentrione, come regione in perenne emergenza, “criminale, sociale, economica”, sull’orlo del baratro; una terra da cui non si può fare altro che fuggire.

E invece Albanese resta – “Andarmene dalla Calabria? Non lo farei mai. Questa è la mia terra, non la loro” – e continua la sua ribellione civile, immaginando un altro finale, una narrazione nuova della sua terra. Il presidente dell’Unione nazionale cronisti della Calabria insignito nel 2016 dal capo dello Stato Sergio Mattarella dell’onorificenza di Cavaliere all’Ordine al merito della Repubblica, prosegue dritto per la sua strada con la sola arma che conosce: la scrittura; il riportare senza paura faccende criminali che fondamentalmente rifiuta, ma con un rifiuto che si trasforma in “istinto di ribellione”, volontà di tentare di cambiare qualcosa, di non lasciare che la Calabria e i calabresi vengano fagocitati dalle cosche.

Nel libro-intervista La ribellione di Michele Albanese si toccano anche i temi dello sfruttamento dei lavoratori immigrati, impiegati nelle aziende agricole delle piane calabresi, e dei rifiuti radioattivi interrati in vaste aree della regione o sommersi nelle acque del Tirreno – significativo il caso della Jolly Rosso, imbarcazione utilizzata ufficialmente per il trasporto di rifiuti tossici, una “nave a perdere” dal carico misterioso restituita dal mare il 14 dicembre 1990. Azioni compiute da chi, sicuramente, non può volere il bene di questa terra.

Gabriella d’Atri e Michele Albanese confezionano un volume di cui fare tesoro, da portare nelle scuole e di cui, soprattutto, per chi si occupa di comunicazione, parlare. Perché se per sconfiggere la mafia sono essenziali i fatti e l’impegno delle istituzioni, per estirpare la cultura mafiosa possono essere bastevoli anche la parola e l’azione dei singoli cittadini. 

Antonio Pagliuso