Recensioni: “Leon” di Carlo Lucarelli

L’Iguana, l’ispettore Grazia Negro e Carlo Lucarelli sono tornati con Léon, un monologo corale in cui il male e il bene si sovrappongono e mescolano continuamente.

Grazia Negro è diventata mamma. L’urlo della vita la sorprende: due gemelle lasciano il suo corpo per non abbandonarla mai più. Finalmente madre, finalmente donna ora che ha mollato il suo “zoo” di criminali: il Cane, il Pittbull, il Lupo mannaro, l’Iguana.

Ecco, l’Iguana. Ricordiamo tutti l’assassino protagonista di Almost Blue, il fortunato noir di Carlo Lucarelli pubblicato nel 1997 e divenuto nel 2000 anche un film con la regia di Alex Infascelli.

“Una belva che cambiava identità a ogni omicidio e proprio per questo lo chiamavano l’Iguana, perché cambiava pelle…”

L’Iguana, il killer seriale che uccide appropriandosi dell’identità delle sue vittime, è tornato, con la sua “voce verde” che ringhia alle orecchie dell’ispettore Negro e di Simone, il ragazzo cieco diventato uomo lontano dalla sua Grazia.

Almost Blue, nella versione mesta del jazzista Chet Baker, ritorna a girare nelle pagine dense di Léon, il nuovo romanzo di Carlo Lucarelli edito da Einaudi Stile libero.

Trasferito dall’ospedale psichiatrico giudiziario in cui era rinchiuso a una casa protetta, l’Iguana ne è fuggito con le mani macchiate di sangue, quello di due altri ospiti della struttura.

“Due cadaveri, maschio e femmina. La donna ha un sacchetto di plastica sulla testa, ma… va bene, allora l’uomo. Stempiato, robusto, sulla cinquantina…”

A indagare, sotto la protezione di una nutrita squadra di carabinieri e poliziotti, Grazia Negro, nonostante i dubbi, i dolori e le paturnie post parto, alle prese con pannolini, tiralatte e tettarelle.

Quella di Léon è una storia immersa nel nostro tempo, il presente a cui toccherà ai posteri, tra venti, cinquanta, cento anni stilare un bilancio e darvi una definizione. Ci troviamo – inevitabilmente, quando a scrivere è Lucarelli – a Bologna, intesa non soltanto come il capoluogo stretto tra Reggio Emilia e Ferrara, ma come la grande città che si estende fino alle coste romagnole; una città/regione – “in cui c’è tutto, tutto, anche quello che non c’è”, mai mera cornice nelle opere dello scrittore e conduttore emiliano – che è agitata da schiere di no vax che chiedono udienza, connessioni traballanti – altro che 5G –, mascherine variopinte a segnare le guance dei protagonisti e tipi che ordiscono nel mare delle reti sociali anziché ardire nella terraferma della vita reale.

La riconoscibilissima capacità narrativa di Carlo Lucarelli non delude neppure in questa avventura, anzi, gode anche di quei particolari luccichio e naturalezza che nei recenti Intrigo italiano e L’inverno più nero (storie e contesti diversi, per carità) erano apparsi lievemente appannati. Ecco che in Léon si ritrova tutta la migliore arte lucarelliana di fare storie e raccontarle, con le sue digressioni, le sue citazioni musicali, le sue pause – ah, le pause di Lucarelli! –; pause in cui tutto si ferma e tutto accade.

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Il romanzo è, di fatto, già una sceneggiatura, teatrale ancor più che cinematografica; un monologo corale, a più voci, tra male e bene, con differenze mai nette, anzi, piuttosto fluide che si sovrappongono e mescolano lungo tutte le pagine dell’opera.

Antonio Pagliuso