Recensioni: “L’ultima erranza” di Giuseppe Occhiato

Per un libro non ha importanza la data della prima pubblicazione e quanti anni abbia; per un libro conta soltanto quello che lascia nel lettore e quanto sia capace di stupirlo.

Giuseppe Occhiato, scrittore nato in Calabria e scomparso nel 2010, è autore de L’ultima erranza, un romanzo che parla la lingua del Novecento italiano e non soltanto. In un solo libro si ritrovano grandi scrittori come Tommaso Landolfi, Salvatore Satta, Carlo Emilio Gadda, Gesualdo Bufalino; c’è anche qualcosa che ricorda il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki.

Giuseppe Occhiato, la necessità di costruire una lingua propria

Nelle pagine del libro, questo calabrese nato nel 1934 a Mileto, centro della provincia di Vibo Valentia, e soprattutto conosciuto per le ricerche storiche condotte, si lancia in una avventura complicata con l’obiettivo unico di “costruire la propria lingua”, ché la “lingua è tutto”. Una frase che Giuseppe Occhiato scrive nella postfazione del romanzo, prendendola in prestito da Louis-Ferdinand Céline. Fra dialettismi, termini aulici e altri di carattere più folkloristico, nell’Ultima erranza lo scrittore dà vita a un’autentica epopea.

Il ritorno di Filippo Donnanna

L’avvenimento scatenante della storia di Occhiato è il ritorno di Filippo Donnanna nella sua Mileto. Corre l’anno 1983 e Donnanna è venuto a cercare riposo nel paese natio, stanco dei ritmi dell’Altitalia. Ritorna alle sue origini, Donnanna, guidato dai consueti sentimenti di amore e di odio, da quei ricordi che fanno ora sorridere, ora piangere. Il protagonista avverte che il tempo è passato; si sente vecchio, sente che forse la morte è ormai dietro l’angolo. Non è detto, però, che la vita non possa ancora stupirlo, anche se lui, in fondo, non ci crede.

Un funerale ritardato

Sta di fatto che nel corso della sua erranza, durante la sua appassionata ricerca di un Assoluto, Donnanna si imbatte in una storia singolare, ovverosia un antico funerale di cui si continua a parlare. Il funerale riguardò Rizieri Mercatante, un giovanotto che perì nel 1943 sotto le bombe della Seconda guerra mondiale. Un funerale che, però, fu celebrato nel 1963. A volerlo fu suo padre, che negli anni del regime fascista partì per l’Argentina, abbandonando la sua famiglia e lottando soltanto per diventare ricco.

Quelle di Rizieri Mercatante furono esequie grandiose, che, se da una parte furono utili al padre per pulirsi la coscienza, dall’altra aiutarono Rizieri a scrivere la parola fine alla sua erranza ingiuriosa nel Regno dei Morti, in quel mondo sottano. Infatti, non avendo ricevuto “tutti i riti necessari”, il giovane non avrebbe potuto attraversare il Ponte di Santo Jacopo e conquistare l’aldilà.

Cosa iniziò a fare perciò questa povera anima senza pace? Cominciò ad apparire in sogno un po’ a chiunque, pure a quel padre che lo aveva abbandonato. Al padre chiese di salvarlo dal tormento in cui era piombato, di salvarlo da quel limbo in cui non si è né vivi né morti.

La “cultura dell’uomo” nel romanzo di Occhiato

Qui esplode la grandezza della letteratura di Giuseppe Occhiato, costruire un romanzo-ponte fra particolare e universale; una storia in cui le piccole vicende di un paesino calabrese vengono inglobate in quell’universo fatto di miti, di leggende, di riti che costituiscono la “cultura dell’uomo”, la sua base sociale, le armi di difesa da un vorace Assoluto che non può essere spiegato.

Ecco, nel libro, anche la Calabria e le sue antiche influenze magnogreche e bizantine. Molteplici tasselli che spingono a riflettere indietro nel tempo, ad andare a ritroso fra quei racconti delle nostre nonne che, probabilmente senza volerlo, erano custodi e sacerdotesse di riti antichi, nonché protettrici di ancestrali suggestioni.

Lo stile polimorfo dello scrittore

Ma, a fare la differenza nella letteratura di Occhiato, come già scritto in un articolo per Borderliber.it, “è lo stile che sa essere colto e popolano, che sa giocare con i significati, che impone al lettore di essere paziente, perché questo libro non si ‘divora’, bensì chiede di essere assaporato, interpretato”.

Davanti a romanzi come L’ultima erranza si comprende quale tradizione ha lasciato il XX secolo. Eppure, Giuseppe Occhiato è stato in grado di andare oltre, di essere capace di fare i conti pure con la contemporaneità. All’interno di questo libro, scritto nei primi del Duemila e oggi ripubblicato da Rubbettino, ci sono i “nostri giorni”. Si incontrano mondi che si dissolvono, linguaggi che si mescolano, parole che si uniscono ad altre parole, significati rovesciati e decontestualizzati, con un respiro avanguardistico che anima l’intera opera letteraria.

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Urge leggere e rileggere Giuseppe Occhiato, scrittore marginale che, al pari di tutti quegli autori che sono condannati per “strani motivi” all’oblio, riesce a dimostrare di essere sempre originale, una “novità editoriale” con cui bisogna fare i conti.

Martino Ciano