Recensioni: “Tangerinn” di Emanuela Anechoum

“Mi ero fatta da capo per non somigliare a nessuno, e avevo finito per non essere altro che la riproduzione di un’idea, qualcosa che avevo solo immaginato. È davvero possibile isolare il grumo essenziale di chi sei da quelli che ti amano, che ti abitano?”

Il tentativo di ricostruire se stessi, la percezione di sé agli occhi degli altri, la analisi dei ricordi e lo sradicamento, declinato sotto varie forme: sono questi alcuni degli elementi che tessono il filo conduttore del romanzo di esordio di Emanuela Anechoum dal titolo Tangerinn, uscito per Edizioni e/o.

L’esordio nella narrativa della autrice classe ’91 nata a Reggio Calabria con sangue marocchino è un romanzo famigliare, di allontanamenti, rancori, ritorni e riallacciamenti.

È possibile cancellare il proprio passato?

Mina, la protagonista di Tangerinn, sta lasciando Londra – città in cui si è trasferita non è chiaro se per scoprire sé oppure per raschiare via parte della propria identità e del proprio vissuto –, per rientrare nel suo paesino del Sud Italia. È un ritorno mesto, ché la notizia che spinge la ragazza sulla via di casa è la morte improvvisa del padre. Un padre che Mina aveva tentato di cancellare, parimenti al suo passato.

“Erano diversi, e io non volevo essere diversa. Non volevo essere come loro, come te. Volevo essere normale.”

Mina è il frutto dell’amore di una coppia mista: madre italiana e padre marocchino. E proprio questa “diversità” è all’origine del suo disagio esistenziale, in equilibrio fra piani sociali, in un perenne stato di irrisolutezza; proprio per questa gravosa peculiarità ha deciso di abbandonare la piccola comunità del paese per mescolarsi in mezzo alla moltitudine di etnie della più “tollerante” metropoli inglese, di sentirsi circondata da persone tutte uguali, fondersi e perdersi in loro, al fine di essere considerata giusta, come gli altri, lei che si è sempre sentita diversa. La ricerca di approvazione altrui che immobilizza l’essere.

Ossessionata dal giudizio altrui, Mina prova a illudersi, restando spaesata ovunque, a proprio agio in nessun punto della sua geografia famigliare, sempre in fuga da sé, parafrasando Corrado Alvaro che della Calabria, la regione di nascita di Emanuela Anechoum, è lo scrittore più conosciuto.

Il presente e il passato di Mina

Col ritorno a casa, principia una lunga lettera al padre scomparso, composta in vari momenti, in specie fra i tavolini del bar di famiglia, il Tangerinn, ritrovo di molti immigrati come Mina e suo papà Omar, microcosmo in cui si incontrano – e mischiano – persone, storie, tradizioni, lingue, saperi, in una sola parola: culture.

Le vicissitudini del quotidiano di Mina si alternano al racconto della vita – reale e immaginata, ché i ricordi “sono sempre infettati dal presente” e la memoria sovente è soltanto fantasia – del padre. Il dialogo, per forza di cose lacunoso, sarà influenzato dal presente della protagonista: l’amicizia di comodo – quindi tutt’altro che una amicizia – con la coinquilina di Londra, una ragazza di “successo”, una salonkommunist sostenitrice di ideali pesati sulla bilancia del tornaconto personale, così superficiale che Mina la pone come modello da raggiungere – “La sua vita era diventata il righello con cui misuravo la mia” –, il rapporto burrascoso, pregno di conti rimasti insoluti, con la madre e la sorella, la conoscenza di un giovane ragazzo, Nazim, fragile come Mina, anche lui assillato dal passato, ma senza quei freni mentali che gli impediscono di mostrare la propria vera natura e andare avanti.

Il complicato rapporto fra sorelle

È il rapporto con la sorella Aisha quello che risulta più significato nella ricostruzione di Mina. Rimasta accanto ai genitori, nonostante le difficoltà, Aisha è fortemente legata alla tradizione e alla religione, scelta che Mina non riesce a digerire – Aisha è “una musulmana sottomessa ad Allah”, secondo la più “emancipata” sorella –, lei che lotta per perdere i propri personali margini, per sentirsi parte del tutto. In realtà il risentimento della protagonista del romanzo è dovuto al fatto che Aisha sia riuscita a resistere – e quindi a esistere –, mentre lei ha ammesso la propria sconfitta, scappando.

La forza delle radici nel romanzo di Emanuela Anechoum

Mina si dimostra una delle tante persone che intendono come integrazione l’annientamento della propria cultura e della propria identità, la necessità di uniformarsi al modello più in voga, più accettato, operazione che diviene ancora più praticabile in una grande metropoli alienante, che porta ad amalgamarsi in automatico con la massa attorno, a fare perdere facilmente i propri tratti, a scomparire. Fortunatamente, talvolta, le radici si rivelano tanto profonde da riuscire a raddrizzare anche le piante più ribelli.

Nel romanzo di Emanuela Anechoum, in conclusione, la morte si manifesta – e accade in molti casi – come possibilità ultima per recuperare i rapporti con chi resta e per indagare il proprio io, oltre che tormentoso tavolo in cui valutare quel che si è fatto e quel che si poteva fare.

“Hai mai vissuto un momento felice che non fosse anche triste?” si domanda la voce narrante dell’opera. Può valere anche l’inverso, ovvero che ogni momento triste è anche in parte felice, può svelare un lato lieto, seppur sia così complicato scorgerlo. Può avere questa ambivalenza anche la morte di un padre, evento che può portare ad affrontare il nostro presente e tutti i sospesi del passato, che pone fine al ruolo di spettatori della propria esistenza, per spingersi al centro del palco, laddove tocca diventarne protagonisti.

Antonio Pagliuso