Recensioni: “Viaggio al monte analogo” di Mauro Francesco Minervino

Mauro Francesco Minervino è professore di Antropologia Culturale ed Etnologia della Accademia di Belle Arti di Catanzaro; possiamo dirlo un curatore di Bellezza. Una bellezza, quella che rimanda Minervino nel suo piccolo scrigno di poesia e meraviglie Viaggio al monte analogo. Monte Cocuzzo. La montagna-arca (edito Oligo), lontana dalla regola, dall’ordine, ma che sfocia nello stupore e che viene affidata agli occhi dell’osservatore. Sì, è un viaggio che trasforma l’approccio alla natura in una sorta di scoperta, in un’esplorazione selvaggia della propria anima.

Le montagnes maudites, gli abissi, il mare sconfinato hanno sempre esercitato un potere magnetico sugli uomini, fino a diventare travolgente bellezza che può finanche aprire un varco nei dedali dell’animo umano; come diceva René Daumal, “la porta dell’invisibile deve essere visibile”. Ed è così che la montagna narrata dall’autore, per una strana alchimia, diventa isola di pietra dove smarrirsi fino a ritrovare sé stessi.

Una quiete accesa, per dirla con Ungaretti, accompagna quella che Minervino non a caso definisce Prefazione visiva, delle foto – scattate dallo stesso autore e da Giuliano Guido e Franco Daddo Scarpino – che ci consentono di avere una visione oltremodo realistica della peculiarità del Monte Cocuzzo e della incredibile somiglianza al suo monte analogo, il Mont Sainte-Victoire da Les Lauves, in Provenza, dipinto da Paul Cezanne centinaia di volte, sempre alla ricerca della sua quintessenza.

E se Cezanne ricalca l’amore profondo per Mont Sainte-Victoire attraverso la pittura, Minervino riesce, attraverso le sue sublimi parole, quasi posseduto dal genius loci, a narrarci il mito della montagna-arca, il Cocuzzo, e dell’indissolubile, inesorabile legame che la Montagna crea tra “terra e cielo, tra la vita e la morte, tra l’umano e l’inumano”.

Numerose le parole che testimoniano la bellezza incontaminata di questi luoghi, parole che attraversano il tempo, a partire da Ecatèo Milesio (550 a.C. – 476 a.C.) che racconta del “Monte Cacuzio, detto così dall’alta cima, pieno di erbe rinomate et salutari” fino ad arrivare al 2023 con Simone F. Mandarini: “Parlarti è comandarmi di non piangere sul sentiero che mi respira e trova casa in cima al vento”.

A dispetto del suo nome, che può facilmente incappare in cacofonie dialettali, le radici del Monte Cocuzzo affondano in un nobile e antico passato: dal latino cacutium che deriva dal greco kakos kytos ossia “pietra cattiva” che, a sua volta, ritrova la radice nella parola sanscrita cauchos, la stessa del Caucaso.

Il Monte Cocuzzo è un’altura di 1.541 metri che, imponendosi nella Catena costiera calabrese come vetta più alta, si affaccia sul mare di Omero. Il territorio, aspro e selvaggio, attraversato da molti corsi d’acqua, tra cui il suggestivo fiume Acheronte, per mezzo di un’antica strada carovaniera portava, in un passato ormai remoto, all’antica Pandosia, e, percorrendo il profilo dei rilievi, giungeva al porto di Temesa, località cantata da Omero nella sua Odissea.

Attraverso una sorta di varco temporale, Mauro Francesco Minervino ci conduce nei vecchi villaggi come Pantanolungo, La Motta, Santo Iaso, Dirrotti, La Pietra, Barbaro dove un tempo dimoravano contadini e pastori e dove si generarono antiche e misteriose leggende. Come quella di Giufà, il giovane garzone che diventa re all’incontrario, che non poteva che essere originario di quei luoghi magici, con le sue avventure “le sue storie dileggianti e mansuete, comprese quelle più orride e cruente, cariche di ferocia animale e ammicchi erotici ma sempre riscattate in extremis da una capriola di furbizia giocosa”. Le sue imprese prendevano corpo tra quelle valli scoscese, tra fiori magici, piante medicali e odori, sapori, come quello del pane, il pane della fame mai sazia dei poveri.

E seguendo la scia del pane, l’autore ci racconta ancora dei suoi percorsi erranti, malinconici “da perdigiorno innamorato” che lo conducono fino a un panificio sperduto di Mendicino dove il pane ha il sapore dei ricordi, dei sogni, della semplicità. Pane e acqua come i pellegrini rispettosi di un tempo passato ma che per uno sconosciuto artifizio ritorna, ritorna per regalare al nostro autore un mondo visto dall’alto, scevro ormai da ogni timore, da ogni preoccupazione, quasi a toccare il cielo con un dito, quasi a sentire Dio a portata di mano.

Sembra di vedere il Viandante di Friedrich, solo, senza nessuno al seguito, come un pellegrino in cerca di risposte da un’entità superiore, intento a contemplare un paesaggio che sembra quasi fagocitarlo nell’“ottenebrante, irresistibile desiderio di scivolare via tra le nuvole e il cielo, e infine lasciarsi cadere, e da lì planare lontano, sempre più lontano fino al cielo”. Lontano anche dalle miserie umane e più vicini alle risposte, la Montagna è metafora di questo nostro eterno peregrinare.

“E posso chiedermi in quell’aria fredda e rarefatta che costringe il respiro all’affanno mentre scompiglia i radi cespugli taglienti delle foglie di butamo che spuntano tra le pietraie della cima ventosa, cosa è mai davvero vivere. Forse essere, essere senza pensare. Considerare che vivere non è pensare di aver per forza una risposta o, meglio, pensare che l’unica risposta è rifarsi di nuovo la domanda, ripetersela in quella calma siderale e investigarla fino al fondo. Fino a smarrirne il senso.” 

Emanuela Stella