del giallo “Un luogo giusto in cui morire” di Giuseppe Benassi, casa editrice L’Erudita

“Borrani era incazzato nero. Il treno doveva arrivare da Roma alle diciassette e trenta. Era un tetro pomeriggio di fine novembre, piovoso e nebbioso.”

 Quella che avrebbe potuto essere una comune e raffinata descrizione di un luogo si tramuta nell’introduzione all’obbrobrio grottesco che circonda il più comune degli spazi abitati dell’essere umano. Questa la visione scelta dall’autore del giallo Un luogo giusto in cui morire di Giuseppe Benassi, edito L’Erudita.

Tutto riporta a una installazione greve, ambienti lugubri, in cui ogni azione è attorniata dal lato oscuro, quello dei pensieri e dei peggiori tormenti della mente, che l’autore riesce a schiudere in un viaggio nell’oblio parallelo al percorso del protagonista, vittima delle sue stesse congetture paranoiche che assumono visioni distorte delle realtà più banali: così come paragonare il dentifricio a un verme bianco che prende vita sul suo spazzolino. L’avvocato Borrani, vittima dei suoi stessi pensieri, sarà travolto da eventi oscuri e coincidenze beffarde che lo condurranno a essere il principale sospettato del delitto che si consuma.

Ma come può la morte di un uomo aprire a nuove possibilità di vita? La riflessione a cui ci invita Giuseppe Benassi va oltre il comune pensare, perché ci apre a una visione differente della stessa morte, non finalizzata come condizione permanente e irreversibile, ma come trasformazione o mutazione degli eventi. La morte di un individuo in effetti ha ripercussioni sulle persone coinvolte indirettamente e non, perché provoca cambiamenti, che possono essere anche evoluzione morale e personale dei soggetti interessati, comunque sempre metamorfosi. Ma si fa riferimento anche alla morte morale, quella che ci rende burattini privi di anima e di pensiero in balia delle circostanze, come un tronco trasportato dalle onde del mare, ma che fortunatamente si possono risvegliare da questo sonno apparente e liberarsi dai fili e riappropriarsi di se stessi e del dono più bello ricevuto: la vita.

Vita-morte, una dualità che si ripropone durante la lettura come stadi dell’evoluzione dell’anima in una continua catarsi, così come quando la candida neve bianca diventa simbolo di purificazione. Una dualità ricorrente che si alterna scombinando equilibri instabili, che abbattono barriere morali preconcette e false che si nascondono da una facciata di integrità morale ben costruita e fuorviante da quella che può essere la semplice realtà delle cose.

Il protagonista di Un luogo giusto in cui morire decide così di sfidare il destino e stravolgere gli schemi della sua ben costruita quotidianità intrinseca di noia che avvelena l’anima in una stasi malata. Così, nonostante la sua palese indolenza, inizia una battaglia contro gli eventi che si presentano repentini e insidiosi, quasi premonizione di disgrazia, ma che decide di sfidare e affrontare anche nelle peggiori delle ipotesi, sino a dissolversi nel nulla, così come l’accusa che l’ha travolto.

Una ricerca della verità dei fatti e di se stessi, dove si affrontano coincidenze ed eventi, dove bisogna oltrepassare il limite di ciò che è apparente e mettere tutto in discussione, decidere se la verità celata equivale a mentire o è solo omettere, rendendosi conto che non si conosce mai nessuno completamente, a cominciare da se stessi. Un’indagine introspettiva e dei fatti, fondamentalmente un’indagine della vita e dell’essere umano e dei lati oscuri che si nascondono in ogni singolo individuo, una continua ricerca di verità ed equilibrio che ci conduce all’alternanza di ordine assoluto e caos, da bene a male, da luce a buio.

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La lettura del romanzo di Giuseppe Benassi invita a un’analisi bizzarra della vita e della coscienza dell’uomo, avvolta da mistero, coincidenze, paure che si superano solo con la ricerca ostinata della verità, in primis quella di noi stessi.

Simona Trunzo