Ilaria Alpi in Somalia

Il 24 maggio del 1961 nasceva a Roma Ilaria Alpi, la giornalista uccisa in Somalia nel ’94 oggi avrebbe compiuto 60 anni

Quella di Ilaria Alpi è una vicenda complessa, un caso che dopo 27 anni non ha trovato una soluzione. La giornalista romana aspetta ancora sia fatta giustizia.

Difficile, però, scordare quella ragazza così sensibile e appassionata. La laurea in lingue e letteratura araba all’istituto di Lingue orientali dell’Università La Sapienza di Roma, le apre la strada verso il Medio Oriente e verso le sue prime corrispondenze, nella metà degli anni ottanta, dal Cairo per Paese Sera. Collabora anche con L’Unità, Rinascita, Noi Donne e Italia Radio.

La carriera in Rai e la missione Restore Hope

La svolta nella carriera giornalistica di Ilaria Alpi, da lei perseguita con determinazione, si ha nel 1990 quando vince il concorso per giornalisti Rai. Dapprima assunta a Rai Sat, viene poi trasferita alla redazione Esteri del Tg3: sarà inviata a Parigi, Belgrado, Marocco e in Somalia. Qui ci andrà ben sette volte: la giornalista si era innamorata del paese, della sua storia politica e culturale.

Il primo viaggio a Mogadiscio come inviata del Tg3 risale al dicembre del 1992. Alla Alpi viene chiesto di seguire la missione umanitaria Restore Hope, sancita dall’ONU allo scopo di stabilizzare la situazione nel Paese a fronte della guerra civile scoppiata dopo la deposizione del dittatore Siad Barre. Di fatto è un intervento militare mascherato da aiuto umanitario per rendere più sicuri i porti, gli aeroporti e i centri di assistenza in Somalia, e per mantenere l’embargo sull’importazione di armi. Un embargo che non sarà rispettato.

Il contingente americano sbarca il 4 dicembre. Il 9 dicembre l’Italia approva l’invio in Somalia di 3.600 uomini. Ilaria Alpi arriva insieme ad Alberto Calvi, suo operatore di fiducia. A quel tempo è un paese dilaniato, letteralmente spaccato in due dagli scontri e dalla carestia, diviso da una linea verde che nessuno oltrepassa senza un motivo valido. A Nord comanda Mohammed Ali Mahdi, a Sud Mohammed Farah Aidid.

Foto di Ismail Salad Hajji dirir via Unsplash

Il primo servizio realizzato dalla cronista è una intervista alle donne somale, grazie alle quali scopre la complessità e i problemi di quella terra. Ilaria Alpi ha un dono: dà voce alle persone e alle loro storie stando in mezzo a loro, mai ponendosi in una posizione dominante. Non ama stare di fronte alla camera, ma essere voce fuori campo: gli spettatori a casa devono vedere la realtà di ciò che accade in Somalia, non lei.

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Mentre in Italia scoppia il caso Tangentopoli, Alpi va nei campi profughi, negli ospedali, nelle carceri, a controllare la distribuzione degli aiuti e denunciare la situazione di miseria. Si rende conto che ogni organizzazione umanitaria ha una sua filosofia, che sul territorio sono presenti molti progetti di cooperazione e altrettanto è il flusso di denaro.

Ma come viene gestito e soprattutto quale è il reale motivo di questo intervento umanitario italiano in Somalia, si chiede. Comincia a calare l’ombra dell’illecito e del malaffare.

Il 5 giugno del 1993, ventiquattro soldati pachistani vengono trucidati mentre ispezionano un deposito di armi. Sia il governo di Islamabad che la comunità internazionale dichiarano il signore della guerra Aidid responsabile dell’omicidio. Truppe USA e ONU attaccano Mogadiscio per stanare il generale e i suoi. 

Il 15 giugno scoppia la rivolta contro gli occidentali, che in luglio comprenderà anche gli italiani, visti come nemici; si muovono in migliaia guidati da Aidid. Le relazioni tra civili e esercito si fanno difficili. La situazione è sempre più tesa.

Il 12 luglio Ilaria Alpi è per la quarta volta a Mogadiscio, ma questa volta va nel Sud del Paese: vuole documentare i fatti in prima linea. È un giorno di sangue: quattro giornalisti internazionali, giunti nella capitale per documentare gli scontri, vengono picchiati a morte dalla folla inferocita. Quel giorno cambia il Paese e cambia la vita professionale di Ilaria. La Somalia diventa un fatto di cuore e politico.

Tutto precipita quando otto militari statunitensi restano uccisi da una mina detonata da ribelli somali. Washington decide dunque di inviare in Somalia il corpo speciale dei Rangers. Ma La battaglia di Mogadiscio si rivela la più grave sconfitta subita dagli Stati Uniti dai tempi del Vietnam. L’operazione Restore Hope è un fallimento. Nella primavera del 1994 i contingenti e anche molte organizzazioni umanitarie si preparano a lasciare la Somalia.

Gli ultimi giorni di Ilaria Alpi e il sospetto di traffici illeciti

Non solo Restore Hope, la reporter romana sta lavorando a una inchiesta parallela. Ha dei sospetti: operazioni sporche, militari e commerciali; scarico di materiale nocivo in cambio di armi che lega a doppio filo istituzioni, imprenditori e servizi segreti collusi.

Dietro la guerra civile e la rivolta c’è qualcuno che tira i fili e vuole sfruttare le fragilità di un paese che sta implodendo. Ilaria vuole scoprire chi: si cercano le armi. È sempre più sola, ma non ferma i suoi servizi che raccontano gli effetti collaterali di quei terribili bombardamenti. Cerca e scrive in continuazione sul suo taccuino. I suoi inseparabili appunti avranno un peso importante in tutta la storia.

Di Siphon – Opera propria, CC BY-SA 3.0, da Wikipedia

Il 12 marzo del ’94 Alpi arriva a Mogadiscio assieme al cineoperatore Miran Hrovatin. In città c’è un clima di grande tensione poiché il contingente ONU ha cominciato a sgomberare la Somalia. Mentre tutti si mettono in salvo sulla portaerei Garibaldi, loro si spostano a Bosaso.

Il sospetto è che lì, al porto, ci sia il principale snodo dei traffici illeciti della Cooperazione. Vi si recano due volte, qui incontrano Abdullahi Mussa Bogor, governatore del Bosaso.

Come era solita fare, l’inviata pone all’uomo domande dirette. Si parla subito della flotta della società Shifco, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia per incrementare l’industria peschiera del Corno d’Africa. Navi che arrivano nel Paese senza neanche le celle frigorifere per conservare il pesce. Probabilmente usate dall’ingegnere somalo con passaporto italiano Omar Said Munye, a capo della flotta, per scopi personali.

In particolare, si fa il nome della Faarax Omar, nave della medesima società ormeggiata a Bosaso su cui la giornalista Rai stava già indagando per un presunto traffico internazionale d’armi e di rifiuti tossici (navi a perdere). Ilaria incalza: chiede a Bogor se la nave ormeggiata in porto, con a bordo tre italiani, è stata sequestrata dalle milizie somale; situazione che avrebbe dovuto attivare l’unità di crisi, invece nulla. Una domanda fatale posta in quella che sarà la sua ultima intervista.

L’agguato ai due corrispondenti

Il 20 marzo 1994 Alpi e Hrovatin tornano nella capitale. Qualcuno, non è chiaro chi, li va a prendere e li porta all’hotel Sahafi, lì arriva a Ilaria una telefonata. Di questo interlocutore non si sa nulla, ma il contenuto della chiamata basta alla giornalista che si precipita fuori con Miran. Salgono sulla loro Toyota insieme all’autista e a una sola guardia armata.

A quel punto si dirigono verso l’hotel Amana, attraversando la linea verde. Attraversarla è pericoloso, perché dunque prendersi questo rischio. Ilaria Alpi deve incontrare qualcuno? Chi e perché?

Ilaria e Miran entrano all’Amana, e ci rimangono solo pochi minuti. Appena ripartiti, una macchina con a bordo un commando composto da almeno sei uomini somali blocca il fuoristrada nel quale stanno viaggiando l’inviata del Tg3 e il suo operatore. Inizia l’assalto. L’auto su cui viaggia Ilaria prova a fuggire in retromarcia, ma impatta e si blocca contro un muro, viene raggiunta da un colpo di kalashnikov. Sopravvivono, illesi, solo l’autista e l’uomo della scorta.

Al momento dell’agguato l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino è lì ed è il primo a intervenire. Miran è morto sul colpo ma Ilaria è ancora in vita. Forse per la donna c’è una possibilità di salvezza. Marocchino e alcuni suoi uomini portano i due reporter al porto vecchio di Mogadiscio dove un medico militare tenterà di prestarle le prime cure, ma la speranza si spegne insieme alla vita di Ilaria Alpi, uccisa a 33 anni mentre svolgeva il suo lavoro. Le salme, avvolte in lenzuoli azzurri, vengono portate sulla nave Garibaldi.

L’omicidio avviene a pochi passi dall’ambasciata italiana e dalla sede centrale della polizia di Mogadiscio, ma sul luogo dell’agguato non si presenta alcuna autorità italiana. Nessuno fa rilevamenti e raccoglie prove. Nessuno fa nulla per far partire una vera indagine. 

L’autopsia sul corpo di Ilaria viene eseguita solo due anni dopo e l’auto su cui i due viaggiavano non viene sequestrata. La ricerca della verità che ha sempre mosso l’animo della giornalista italiana viene in tutti modi nascosta. I depistaggi  e la sottrazione di prove la fanno da padrone. L’ultima intervista viene rimaneggiata e tagliata, alcune videocassette sono state sottratte e i preziosi taccuini della Alpi magicamente scomparsi. A Roma arrivano solo i due bloc notes ancora intonsi e i bagagli giungono con i sigilli violati. Tra quelle pagine c’erano le risposte che avrebbero fatto luce su quello che la cronista aveva scoperto. 

I rapporti ONU sui traffici illeciti scoperti da Alpi 

Nel 2006, la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’avvocato e ex parlamentare Carlo Taormina sostiene la tesi della tentata rapina e non più quella dell’attentato alla persona. Di fatto si nega che i due reporter siano stati freddati in un agguato. Tesi smentita dalla superperizia balistica, effettuata da un collegio di consulenti tecnici, che chiarisce la dinamica dell’uccisione: i colpi sono stati sparati da distanza ravvicinata, è una esecuzione.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin avevano scavato troppo a fondo e rischiavano di far luce su un traffico che doveva restare segreto, portato avanti da due noti broker internazionali: il siriano Monzer al-Kassar e il polacco Jerzy Dembrowski. I due agivano in un territorio controllato da Mohammed Ali Mahdi, signore della guerra su cui avevano puntato gli americani. Un traffico illecito in cui a recitare la loro parte sono stati anche la CIA e la Shifco.

Secondo le fonti confidenziali della Digos di Udine, il somalo Addow, collaboratore della CIA, e il capo di flotta Munye sarebbero rispettivamente esecutore e mandante dell’agguato del 20 marzo 1994.  La posizione di quest’ultimo però viene archiviata dalla commissione Taormina.  

Eppure, nei primi anni 2000 la Shifco appare in due diversi rapporti ONU tramite il gruppo di monitoraggio sulla Somalia, che si occupa del rispetto dell’embargo sull’importazione delle armi. Rapporti su una partita di armi polacche arrivate nel nord della Somalia nel 1992 e poi nuovamente nel 1994. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, quel traffico fu organizzato proprio da Al Kassar utilizzando le navi Shifco per il trasbordo.

Non solo, un illecito riguardava anche la spedizione in Somalia di una partita di 5000 fucili d’assalto e 5000 pistole da parte degli Usa: una partita era destinata alla neonata federazione croata-bosniaca durante la guerra nell’ex Jugoslavia. La Faarax Omar della Shifco era quindi ostaggio del clan di Ali Mahdi fino alla consegna del carico. Serviva come garanzia del pagamento della tangente per il traffico d’armi Usa-Italia destinato a Zagabria. 

Se non fossero stati uccisi, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero presto arrivati a scoperchiare il vaso di Pandora. 

Dopo otto processi e quattro Commissioni parlamentari, l’unico condannato a 26 anni è il cittadino somalo Hashi Omar Assan, che molti credono innocente e il cui unico accusatore Ali Rage Ahmed, detto “Gelle”, è sotto processo per falso e calunnia dopo aver dichiarato di essere stato pagato per mentire.

Solo la lettura degli atti desecretati nel 2013, le ricostruzioni dei colleghi Rai di Ilaria Alpi, le testimonianze di Calvi e di Franco Oliva, ex funzionario della Farnesina, le rivelazioni di un ex appartenente alla Gladio, organizzazione segreta legata ai servizi di sicurezza italiani e americani, possono mettere insieme i tasselli del puzzle ancora fuori posto.