Intervista a Pauline Klein, autrice del romanzo “La figurante”Foto di © Pascal Ito Flammarion

La figurante è il titolo del primo romanzo tradotto in Italia della scrittrice francese Pauline Klein, già vincitrice nel 2010 del Premio Fénéon e nel successivo anno del Prix Murat – «Un romanzo francese per l’Italia». La abbiamo intervistata con la collaborazione della casa editrice Carbonio.

 

La protagonista de La figurante – il suo ultimo romanzo e il primo a venire pubblicato in Italia da Carbonio Editore, con la traduzione di Lisa Ginzburg – è Camille, una donna dall’atteggiamento ambiguo e multiforme. Pauline Klein, come si può allora leggere questo personaggio: si tratta di un’eroina o un’anti-eroina? 

«Ho tentato di far sì che Camille non fosse né l’una né l’altra cosa, e a dire il vero, al principio della scrittura del libro, non pensavo né a un’eroina, né al suo opposto. Al contrario, credo che sia come tutti, o quantomeno come moltissime donne, un personaggio sia banale che straordinario, sia realista che fittizio. Non so cosa sia un’anti-eroina, credo anzi che avremmo tutto da guadagnare se ci sforzassimo di ascoltare coloro che non si attribuiscono alcun eroismo – le voci silenziose spesso sopite da quelle più stridenti di loro. Essere un’eroina non è soltanto una questione di coraggio, è anche una questione d’arroganza, d’immaginazione e di ambizione. Una voglia di essere al mondo che ha la volontà di distoglierci dal resto. Una figurante non ha questa volontà. Ritiene che la sua vita possa avere ugualmente valore anche senza essere urlata.»

 

C’è un momento nella vita in cui “si avverte il divario tra quanto si dà a vedere in pubblico e la propria intima natura, il personaggio sociale si scolla dal resto dell’identità”. Crede che anche per noi sia difficile riuscire a distinguere la nostra versione originale dalle altre centomila (per dirla con Pirandello) che proiettiamo nel mondo?

«Sì, certamente; credo che si tratti ormai di un automatismo, qualcosa che abbiamo integrato al nostro interno, e che a ben vedere è una prigione identitaria che non mettiamo nemmeno più in discussione, tanto siamo proni al mondo esterno, alle tecnologie e alla tirannia dell’immagine. Non sappiamo neanche più cosa significhi “essere noi stessi”, sebbene sia una delle imposizioni più utilizzate dalla pubblicità. Essere se stessi è diventato un luogo comune tanto banale come “l’aver bisogno d’aria” o “l’essere in una fase di transizione”. Mi interessa molto quello che diciamo o facciamo senza porci domande, come un modo d’essere acquisito. Il mio campo epistemologico e letterario non è mai uno studio storico, o scientifico, sebbene questo sopraggiunga in un secondo momento: cerco di studiare il banale, ciò che significa essere umani nel senso più intimo e dettagliato possibile, cerco di scavare nei dettagli che ci rendono folli… e queste centomila voci di cui lei parla sono forme di follia che risiedono nel bisogno di normalità, un substrato stridente, estraneo, a cui ci rifiutiamo di avere accesso in nome dell’accettazione sociale. Mi interessa il fuoricampo, l’impubblicabile, ciò che è camuffato…»

 

La Figurante è un romanzo che si fonda sull’apparenza, sul bisogno di esistere e di sentirsi riconosciuti dalla società. A questo proposito, qual è stato secondo lei l’impatto dei social network negli ultimi dieci anni?

«Immenso. I social sono essenziali, onnipresenti e affascinanti, il che li rende ancora più pericolosi sia nell’utilizzo sia nella critica. Penso che tutti gli scrittori contemporanei si inchinino al dato di fatto che la nostra identità è stravolta da questo sistema. Come ho detto, mi interessa il fuoricampo, quello che rimane una volta che ciò che noi riteniamo pubblicabile è stato passato al setaccio. Quando vedo delle immagini o dei commenti postati ufficialmente e conosco i retroscena, da una persona di cui conosco le vicende, mi rendo conto che di frequente ciò che viene divulgato è l’esatto opposto di quello che succede davvero. Ho scelto di interessarmi alla differenza tra quello che viene mostrato e la realtà. È all’interno di questo margine che il personaggio della figurante si muove e si evolve.»

 

La figurante di Pauline Klein (Carbonio)
Pauline Klein, La figurante

In che misura la paura di “restare fuori”, di “non fare parte di niente”, di “essere esclusi anche da se stessi”, che è una condizione costante dell’animo di Camille, può condizionare le nostre vite?

«È una domanda interessante e costituisce effettivamente e senza ombra di dubbio una gran parte di noi. Possiamo spingerci molto lontano con questa domanda, senza mai trovare una risposta. È una battaglia esistenziale – spesso molto dolorosa per le generazioni più giovani – vedere all’interno del legame con noi stessi, vale a dire ciò che mostriamo, ciò che nascondiamo e il modo in cui ci camuffiamo lontano da noi stessi, anche nei nostri rapporti intimi con gli altri. Per esempio, quando guardiamo dei video di deep fake, non ci troviamo solamente davanti a delle prodezze tecnologiche, ma siamo costretti ad affrontare a viso aperto le nostre stesse convinzioni, le nostre paranoie, la nostra solitudine. È il nostro completo sistema d’identificazione che viene messo in discussione. Non dobbiamo più batterci per capire chi siamo come accadeva prima della comparsa dei social, dobbiamo lottare ogni istante, ogni volta che ci confrontiamo con questa alterità preconfezionata che ci acceca e ci spinge perversamente a desiderare una vita diversa dalla nostra. Credo davvero che si tratti di una piccola guerra individuale, tanto più drammatica perché solitaria e noi non abbiamo tutti le stesse armi per combatterla, e ciò rende tale guerra ancor più crudele e ingiusta dal punto di vista sociale ed economico.»

 

Il modo in cui il suo libro è scritto fa pensare alla sceneggiatura di un film, perché attraversa tutte le tappe di maturazione del personaggio principale. Quale attrice potrebbe interpretare Camille, se La Figurante diventasse davvero un film?

«Mi piacerebbe molto che il libro fosse adattato per il cinema, e sto già lavorando per farne una pièce teatrale. Sono rimasta molto colpita dalle lettere di alcune attrici [di teatro] francesi che si sono identificate con il personaggio. Questo perché Camille è capace di tutto, nel senso più banale del termine: voglio dire che è anche un’attrice, perché sa come infiltrarsi in mondi che non corrispondono al suo. Ci vorrebbe un’attrice che riesca a essere al tempo stesso troppo giovane e troppo vecchia, che sia capace di giocare con il suo corpo ed essere insieme bella, volgare e insensibile, intrigante ma che passi anche inosservata, se così le aggrada.»

 

In conclusione, Pauline Klein chi sono le figuranti al giorno d’oggi?

«Direi che sono quelle voci che non ascoltiamo, ma che esistono in un mondo “sommerso”. Non mi piace questa espressione del mondo sommerso, quello che non si vede a un primo sguardo, che bisogna andare a cercare per sentire e vedere altre cose. Sono delle voci dettaglio, che non colpiscono, non sbattono le mani sul tavolo ma bussano con discrezione, senza essere sicure, senza osare. Quelle voci che dubitano, temono di essere derise, sono in qualche modo le bambine che non osavano alzare la mano in classe perché credevano di avere la risposta sbagliata, e che sono diventate adulte. Ma le risposte sbagliate sono comunque risposte…»

Antonio Pagliuso

Foto di © Pascal Ito Flammarion