«Ne “La stanza del buio” lancio il messaggio di un futuro possibile oltre i colpi della vita», intervista a Daniela Rabia

Giornalista e personalità di primo piano della cultura calabrese, Daniela Rabia torna in libreria con un nuovo libro: è La stanza del buio, un romanzo che, come sostiene l’autrice, è destinato in particolare alle madri e alle donne che, seppur non hanno avuto figli, sono pur sempre madri.

Daniela Rabia, tu sei giornalista pubblicista, collabori per vari giornali e riviste culturali, sei direttore artistico di festival, organizzi rassegne culturali, presenti libri da molti anni. E ora, nuovamente, autrice con La stanza del buio, fresco di stampa per i tipi di Pellegrini. Come si comporta una persona come te, così impegnata nella promozione della cultura, quando l’opera al centro del dibattito è la propria?

«Grazie per questa domanda introduttiva. Da quando ho iniziato a scrivere e a pubblicare libri – esattamente il 6 ottobre 2011 stipulavo il primo contratto con un editore –, sono cambiata molto. Se all’inizio era fondamentale per me la divulgazione dell’opera, oggi reputo essenziale solo lo scritto. La cosa che amo fare in assoluto è leggere e per potermelo consentire devo lavorare, strappando le ore al sonno per dedicarmi alla mia passione. In tutto questo, sebbene possa sembrare strano, oggi, l’attività di promozione di una mia opera diventa per me residuale. Non cerco partecipazione in eventi, aspetto e colgo quel che viene. Di certo mi piace andare a parlare dei libri, miei e non solo, nei luoghi in cui ho trovato calore, attenzione, volitività, interesse, partecipazione vera. Quanto al dibattito a cui accenni, reputo che per suscitare interesse è bene che ci sia realmente un dibattito e rifuggo sempre di più dai contesti in cui questo non viene evocato perché si preferisce battere le mani in maniera acritica. Così, a comando. Mi piace, insomma, più la voce discordante e motivatamente dissenziente che non quella che si allinea alle cosiddette maggioranze modaiole. Vedi, io credo ancora e non smetterò di farlo, che i libri siano un veicolo di ricerca di libertà. E questa libertà non può e non deve essere coartata dalla voglia di ottenere facili consensi.»

 

Parlaci un po’ della genesi di questa tua nuova fatica letteraria.

«Questo libro nasce da un’immagine che ho fissa nella mente e nell’anima da oltre vent’anni. Sta lì scolpita e nessuno la sposta, neanche il tempo. Su questa si è innestata la mia esperienza di vita che è lontanissima dagli accadimenti del romanzo ma per negazione li ha generati dentro. Dentro di me. Un testo scritto prevalentemente di notte, al buio o in penombra. Una storia che diventa vera nelle pagine che si susseguono al punto da aver portato il mio editor della Pellegrini, Lino Palermo, a farmi le condoglianze dopo aver letto la prima volta il romanzo. Io e Lino ci siamo sentiti solo al telefono e scambiate infinite mail ma mai visti dal vivo. È bravo, ci tengo a dirlo.»

 

Ne La stanza del buio sondi il legame viscerale tra una madre e suo figlio. Nel nostro tempo tanto incerto, tanto liquido questo nodo è ancora così forte e indissolubile?

«È uno dei rapporti più autentici che possano esserci. Nel bene e nel male. Voglio dire sia quando prevale fisiologicamente la parte sana del legame sia quando viene in giuoco la contestazione che consente la crescita dei figli per superare la visione dei genitori. E questo tira in ballo la negazione, il rifiuto, il dissenso, forieri di affermazione individuale. A questo punto, stando alla mia storia, c’è da chiedersi se la morte spezzi i legami. La mia risposta è no. Credo che addirittura li rafforzi.»

 

Qual è il messaggio che hai voluto racchiudere dietro le imposte de La stanza del buio?

«Un messaggio di speranza. Di vita oltre la morte, di futuro possibile nell’immaginazione di chi subisce una battuta d’arresto. Di ripresa del presente. In definitiva di vita.»

 

La pubblicazione di un nuovo lavoro porta con sé una lecita euforia; ma, fingendo distacco, cosa ti aspetti da La stanza del buio rispetto agli altri tuoi romanzi Matilde. Non aspettare la vita non ti aspetta e Le voci dell’eco?

«Guarda, non mi aspetto nulla in particolare. Perché il libro mi ha già tolto e dato tutto. Ora lo lascio andare e vivere di vita propria. Come è giusto che sia. Consapevole del fatto che questa sua vita non mi appartiene. E che io sono già altrove.»

 

Nell’introduzione al romanzo, l’archeologo e scrittore Francesco A. Cuteri scrive che tu parli sì del buio, tenendo però accanto a te sempre una lanterna. È questo l’approccio che deve avere il lettore che si approssima alla lettura del tuo lavoro?

«Spero che questo sia l’approccio di ogni lettore, ogni singolo uomo alla sua vita individuale. Dove andiamo se non ci attrezziamo di una lanterna nel buio di alcuni frangenti di vita? E spero altresì che si sia così generosi da regalare non la lanterna, cosa impossibile, ma raggi di luce che da essa promanano agli altri. A quelli che ci stanno attorno e che ancora brancolano nel buio. A coloro incapaci di affacciarsi dalla finestra e respirare aria pura.»

 

Ecco, a proposito di lettori: lo scorso anno il CEPELL, Centro per il libro e la lettura, ti ha conferito il titolo di Ambasciatrice della lettura. Darti della lettrice forte è riduttivo; chi ti conosce sa che sei una fuoriclasse della lettura: partendo da questo assunto, a quale pubblico, in particolare, consiglieresti il tuo romanzo?

«Ovviamente a tutti. In particolari alle madri. E alle donne che non hanno avuto figli ma sono pur sempre madri.»

Antonio Pagliuso