Nel 1922, con la conquista del potere dei bolscevichi di Lenin e Trockij, centinaia di intellettuali furono espulsi dalla Russia con l’accusa (o il solo sospetto) di essere spie e antirivoluzionari. Eminenti cervelli abbandonarono il Paese su quelle passate alla storia come le Navi dei filosofi.
Prevenire e intervenire risolutamente, prima che possano soltanto pensare di sovvertire l’ordine delle cose – il nuovo ordine stabilito con così gravoso spargimento di sangue. Agire subito, eliminandoli o, perlomeno, allontanandoli dal nostro mondo.
Era questo il pensiero alla base dell’azione che nel 1922 portò Lenin e Lev Trockij, i capi della rivoluzione bolscevica, a esiliare dal territorio russo un gran numero di prominenti intellettuali, soggetti pericolosi nel progetto di ricostruzione di una terra devastata, di un Paese in macerie che pure necessitava di menti sopraffine, e non solo di braccia robuste, per risollevarsi.
La Russia dopo la Rivoluzione d’ottobre e la guerra civile
Inizio 1922. Sono trascorsi cinque anni dalla Rivoluzione d’ottobre, ma gli scontri sono ancora all’ordine del giorno nella Russia incerta su come sarà il domani. Nel territorio che fu Impero russo e che sarà Unione Sovietica da lì a breve – l’URSS sarebbe nata ufficialmente il 30 dicembre di quello stesso anno – prosegue la guerra civile, sanguinoso rivolo del ’17, tra i bolscevichi di Lenin e Trockij e le forze dell’Armata bianca – colore scelto sia in contrapposizione all’Armata rossa bolscevica, sia perché il bianco era il colore che identificava gli zar –, nucleo composto da vari gruppi antibolscevichi, filomonarchici e nazionalisti, sostenuti da alcune potenze straniere come la Germania (o meglio, l’Impero tedesco), la Francia, l’Italia, il Regno Unito, gli Stati Uniti d’America e il Giappone. Un gruppo estremamente corposo quello dell’Armata bianca, supportato da grandi potenze, ma assolutamente disunito e mal organizzato.
La rivolta antibolscevica di Kronštadt
Gli scioperi organizzati con l’appoggio dei menscevichi, i principali e storici oppositori dei bolscevichi, si susseguono a Pietrogrado – il nome assunto da San Pietroburgo dal 1914 al 1924 – e Mosca – divenuta nuova capitale nel 1918 – anche a causa della terribile carestia che ha colpito la regione del Volga decimandone le popolazioni.
Culmine di queste tensioni, la rivolta alla base militare di Kronštadt, città fondata da Pietro il Grande sull’isola di Kotlin, nella baia della Neva, alle porte di Pietrogrado. Nel marzo del ’21 i marinai sono insorti contro il nuovo governo e a favore del ripristino dei soviet. “Il potere ai Soviet e non ai partiti” è il grido di battaglia. Uno scontro breve – viene risolto in una dozzina di giorni – ma sanguinoso, concluso con i militari bolscevichi ad avere la meglio a seguito del bombardamento del porto navale e un bilancio finale che oscilla tra le 1.500 e le 3.500 vittime tra i due schieramenti.
Nessuna tolleranza per gli intellettuali
La guerra civile sta terminando con la vittoria delle milizie leniniste. Le dure repressioni di Kronštadt e delle piazze consolidano il potere bolscevico, ma non basta: i leader del nuovo Stato socialista sanno che urge allontanare una volta per tutte gli oppositori, ché non possano più dare vita a nuove contro rivolte.
Inizia così l’espulsione sistematica di centinaia di migliaia di militari e civili russi verso l’Europa. Non solo: oltre ai menscevichi, anarchici, nostalgici dello zarismo – almeno un milione quelli costretti ad abbandonare la loro patria in tutti gli anni venti del XX secolo –, la misura riguarda anche un gran numero di scrittori, poeti, scienziati, giornalisti, sociologi, economisti, religiosi – la nascente URSS, oltre che proletaria e antiborghese, si dichiarava fermamente atea –; anche loro, l’intelligencija, sono potenziali “nemici del popolo”, ostili ai dettami del “comunismo di guerra”, e pertanto da tenere lontani.
Incaricata a individuare gli intellettuali da scacciare è la famigerata Čeka (la Commissione straordinaria di tutte le Russie per combattere la controrivoluzione, la speculazione e l’abuso di potere), vale a dire la polizia politica bolscevica, con a capo il rivoluzionario della prima ora Feliks Dzeržinskij, soprannominato per la sua devozione alle ragioni bolsceviche Feliks di Ferro.
Per tantissimi il provvedimento è l’esilio, per altri l’eliminazione fisica: come Nikolaj Gumilëv, popolare critico letterario e poeta acmeista, tra i più esimi della cosiddetta epoca d’argento della poesia russa, nonché primo marito di Anna Achmatova, che viene giustiziato il 26 agosto 1921 con l’accusa di attività controrivoluzionarie.
“Abbiamo espulso quelle persone perché non c’erano pretesti per fucilarle, ma non c’era la possibilità di tollerarle”. Così Trockij, come riporta “Russia Beyond” in un articolo sul tema.
Costrette a fuggire anche le poetesse Berberova e Cvetaeva
Uomini scomodi come il filosofo Ivan Il’in, il sociologo Pitirim Sorokin, Nikolaj Berdjaev, pensatore e tenace dissidente, detto il Filosofo della libertà, lo storico Aleksandr Kizevetter, il critico letterario Julij Aichenwal’d, lo psicologo Semën Frank, docente di filosofia all’Università di Mosca, Boris Vysheslavtsev, professore di filosofia del diritto allo stesso ateneo, padre Sergej Bulgakov, teologo e professore all’Università di Simferopoli, in Crimea.
Ma anche donne come le poetesse Nina Berberova col marito Vladislav Chodasevič e Marina Cvetaeva, la voce anticonformista e rivoluzionaria per antonomasia della poesia russa (di lei disse Iosif Brodskij: “Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei”), alla ricerca, “come un cagnolino”, del marito Sergej Efron, fuggite per timore di essere obiettivo delle persecuzioni e vedersi sequestrati tutti gli averi.
Come emerge da questo parziale elenco, una parte di esiliati è composta da professori: i bolscevichi, infatti, hanno progettato una rivoluzione anche in ambito accademico, una riforma profonda dell’istruzione statale volta a creare una sana generazione di socialisti che non può contemplare voci fuori dal coro, non in linea con l’ordine nuovo.
Lenin – dal 1922 Presidente del consiglio dei commissari del popolo dell’Unione Sovietica – e Trockij – dopo la morte di Lenin e l’ascesa di Stalin allontanato dal partito e dalla Russia e poi, nel ’40, fatto assassinare, su ordine dell’Uomo d’Acciaio – mal tollerano (o sarebbe meglio dire sono spaventati) i pensatori del Paese che sono chiamati a ricostruire sulle ossa dei Romanov, non possono permettere alcuna libertà d’azione a spie e antirivoluzionari.
Salpano le Navi dei filosofi
È il 29 settembre 1922 quando il progetto sovietico di epurazione si concretizza. Da Pietrogrado parte il primo piroscafo con a bordo un centinaio di persone indesiderate, tra intellettuali non allineati e le loro famiglie. È il Oberbürgermeister Haken; la destinazione è Stettino, oggi in Polonia ma allora parte del territorio tedesco. Altre Navi dei filosofi, come la Preussen, salpano nel novembre successivo dirette anche a Sud, a Costantinopoli, capitale del morente Impero ottomano.
I centri dell’emigrazione politica russa
Espulsi dalla patria – deportati non soltanto a bordo delle Navi dei filosofi, ma anche in treno, alla volta di Riga – a causa della loro capacità di pensare, gli esuli sono accolti in Germania – Berlino rappresenta il centro in cui trova riparo la prima comunità di russi –, in Francia, in Cecoslovacchia. Abbandonati i confini patri, gli émigrés non si integrano con le genti dei nuovi Paesi, ma preferiscono restare tra di loro, creando delle autentiche enclave del pensiero russo nella vecchia Europa.
A Berlino, Praga e Parigi, destinazioni principali dei proscritti “antirivoluzionari”, nascono così musei e librerie russi, ma anche decine di giornali e case editrici con i quali i rifugiati pubblicano migliaia di trattati e scritti. Nella capitale dell’attuale Repubblica Ceca, si formano addirittura dei circoli culturali come la “scuola di Praga” in cui si incontrano intellettuali russi e praghesi interessati a sviluppare nuovi metodi di analisi del linguaggio, principi che si riveleranno importanti, nei decenni successivi, per gli studi nel campo della linguistica e della semiotica.
Dalle Navi dei filosofi alle Grandi purghe di Stalin
La vicenda dell’epurazione degli intellettuali russi degli anni venti tramite le Navi dei filosofi ha rappresentato una enorme perdita per la cultura russa del tempo, un abbaglio per un governo che si poneva l’obiettivo di creare un popolo solido e unito sotto la bandiera rossa appuntata dalla falce e dal martello e, considerazione non di minore rilievo, evento battistrada per le tragiche Grandi purghe staliniane del decennio successivo.
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Interessante volume sull’argomento, purtroppo ancora non tradotto in italiano, è quello realizzato nel 2013 dalla studiosa Catherine Baird: Revolution from Within: The Ymca in Russia’s Ascension to Freedom from Bolshevik Tyranny, che acclude anche le biografie di tutti gli intellettuali protagonisti dell’esodo.
Antonio Pagliuso
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