recensione de L’anno capovolto di Simone Innocenti

Nella stupenda villa di Giulio e Francesca, la clessidra esaurisce i suoi granelli: scocca l’ora della resa dei conti. I protagonisti “smarginati” al margine de L’anno capovolto, il nuovo romanzo di Simone Innocenti.

Marina di Massa, riviera apuana, poco più a Nord della più famosa Versilia – quella di Giosuè Carducci, della Capannina e di Sapore di mare –, ché “in Toscana i confini sono una cosa seria”. In una splendida villetta affacciata sul mar Ligure ci si prepara a festeggiare un anno che va e uno che viene e “che tra un anno passerà”. L’odore di salmastro, spinto dal vento mediterraneo, raggiunge la signorile abitazione, con in grembo la promessa di una estate che quella notte speciale, la notte di Capodanno, quel “tempo altro”, non appare più così lontana. Il refolo di una nuova estate, le luci di un nuovo anno, i granelli della clessidra che, impassibili e perfetti, scorrono; la speranza e l’illusione che si fondono nella notte più attesa.

È una notte di festa, sì, ma una regola vige nella dimora di Giulio e Francesca, i padroni di casa: i telefonini devono stare distanti dal simposio, tutti ammucchiati in un paniere in soggiorno, ché la coppia vuole gli occhi degli amici tutti per sé, nell’opulenza dei quadri e degli argenti che adornano le pareti e i mobili della villa.

Questa è la cornice de L’anno capovolto, il nuovo romanzo di Simone Innocenti di fresca pubblicazione per le Edizioni di Atlantide.

È un autentico palcoscenico quello imbastito da Innocenti, giornalista e collaboratore de “La lettura”, in cui si alternano molteplici personaggi, mentre il tempo passa e la clessidra spinge giù i suoi grani diretti a celebrare “la nullità di un fine anno”.

C’è Riccardo, che sa di dovere morire, ché il tumore al fegato che ha da poco scoperto non gli permetterà di festeggiare un altro ultimo dell’anno; Riccardo che ha già deciso di andare in Svizzera per non soffrire come un cane nella fase finale del suo calvario, per risparmiare ai suoi pochissimi cari lo strazio di vederlo spegnersi come un moccolo di candela.

C’è Caterina, bella, così tanto bella che tutti la guardano proprio per quella ragione, la sola, la più importante, l’unica. Caterina che esiste “attraverso lo sguardo e il desiderio degli altri”, anche se le attenzioni che fedelmente le riservono gli altri non contano nulla, ché lei, Caterina, brama soltanto quelle di Riccardo che, invece, non la desidera, e le anela proprio per questo, narcisisticamente, perché lui, il dio cui ha eretto il tempio, non le mostra il suo appetito.

Sul proscenio della villa sulla scogliera apuana sale anche Paolo, che da lassù vuole scoprire il sottinteso delle stelle, l’inintelligibile trama luminosa del cielo, per salvare l’umanità, dice, ma ancora prima se stesso perché, finalmente, il destino possa tornare dalla sua parte.

Un destino cui smania di ribellarsi anche Lucrezia, umiliata dalla sua vita coniugale, imperniata su quel maledetto gesto di Tommaso, suo marito, che ogni lunedì mattina le lascia sul piattino d’argento in salotto, a lei che non lavora, i soldi per le spese domestiche; a sfregio, come il padrone che concede una fetta di pane imburrato alla serva.

C’è anche, ma non solo, Alessandro, che ha perso i genitori nello scoppio della casa, polverizzata a seguito di una fuga di gas, e che ha deciso di vivere in barca, in acqua, ché in mare “non c’è nessuno che metta un pezzo difettoso di tubatura per pagare meno i materiali di costruzione”.

Il mare, quel mare nero oltre la scogliera, quel mare che rende tutto chiaro, che appalesa le storture, gli intrighi; il mare che è la soluzione. E soluzione, o risoluzione, sarà.

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Una sequela di tradimenti, antichi livori, decisioni da prendere, vendette raffreddate quanto basta e adesso perfette da consumare emergono attorno alla tavola imbandita dell’ultimo dell’anno. Tutti hanno qualcosa da nascondere, tutti hanno qualcosa da confessare, che poi è la stessa cosa. Nell’aria si respira il frizzio euforico della fine e dell’inizio, di qualcosa che sta succedendo.

“Mi pare che al margine di questo anno ci siamo arrivati tutti un poco smarginati.”

Tra le pagine de L’anno capovolto si riscontrano le idee e lo stile già apprezzati nel precedente lavoro di Simone Innocenti, Vani d’ombra (Voland 2019), in un’anima aspramente critica verso la società contemporanea, le sue ipocrisie, i suoi rapporti insussistenti, le sue apparenze focalizzate soltanto all’oggi, quel misero tempo che così curiamo e lodiamo, banalmente, ché, per dirla con Antonio Delfini – poeta e scrittore amatissimo dall’autore –, “la vita non è mai presente”, ma passato e avvenire.

Antonio Pagliuso