Recensioni: “La ragazza della Locride” di Patrizia Starnone

È Diana, come la dea romana della caccia e della verginità corrispondente alla greca Artemide, il nome della protagonista de La ragazza della Locride, il romanzo d’esordio di Patrizia Starnone (Iod Edizioni). Come si evince dal titolo, la storia è ambientata nell’area della Calabria ionica, già colonia magnogreca conosciuta come Locri Epizefiri. La Locride, terra di bellezze archeologiche e naturalistiche, ma anche terra feroce di ‘ndrangheta, in cui financo amare, affezionarsi, provare sentimenti può rivelarsi pericoloso. E la piaga della ‘ndrangheta compare fin dal primo capitolo del volume con l’assassinio di Pietro, un ragazzo di appena sedici anni, fidanzato con Diana, che ha avuto la sola colpa “di voler cercare verità e giustizia”.

Una notizia che sconvolge tutta la comunità della Locride, primi tra tutti la ragazza e suo padre, ma con turbamenti di segno decisamente opposto. Il dramma dell’uomo, infatti, è il seguente: cosa potrà dire la gente quando saprà che la sua bambina era innamorata di quel giovane ucciso in un agguato nella faida tra clan che sta insanguinando il paese? Il padre di Diana è furioso, non può permettere che la figlia vada al funerale di Pietro – invariabilmente un delinquente, secondo la sua mentalità – e che tutto il paese veda il suo inconsolabile dolore. Un momento che segnerà il prosieguo della difficile vita di Diana.

La ‘ndrangheta secondo Patrizia Starnone

Tra le pagine de La ragazza della Locride, la ‘ndrangheta – seppur il volume non sia legato direttamente ed esclusivamente al tema della legalità – viene rappresentata in tutta la sua bestialità e soprattutto nel rapporto che ha con la popolazione – tutta, non per forza la minima parte correa –, una popolazione, se non già vincolata, almeno influenzata dal volere dei capibastone dell’area. Patrizia Starnone paragona la ‘ndrangheta a Steno, una delle tre Gorgoni della mitologia greca, che rappresentava la perversione morale ed era raffigurata con ali d’oro, artigli di bronzo, zanne di cinghiale e in testa un covo di serpi.

Lo abbiamo detto, il libro non si concentra solo su quell’episodio di sangue della vita della protagonista, ma corre avanti e indietro nel tempo, focalizzandosi sul tessuto sociale e le consuetudini della terra di Calabria e su come questi si riverberino nelle varie fasi dell’esistenza di Diana: l’infanzia, la giovinezza, l’età adulta, trascorse tra le case di Torino, Siderno e Locri.

Le case de La ragazza della Locride

Le case, uno degli elementi fondamentali della narrativa delle ultimissime stagioni, in cui proprio la casa, dimora o rifugio, permanente o di passaggio, ha abbandonato quella misera veste di semplice spazio, mera cornice della narrazione, per riassumere una importanza e un ruolo, per la nostra formazione e la nostra memoria, che la società della corsa sfrenata ai consumi ha dimenticato. Casa intesa come ambiente in cui si coltivano le paure, le speranze, i sogni, come quelli di Diana che forma fin da ragazzina la sua emancipazione in una famiglia dagli antichi valori meridionali e di stampo matriarcale, retta dalla mater familias nonna Carmela, una donna dal temperamento forte e caparbio, che, sotto traccia, sosterrà le ambizioni “scismatiche” della giovane protagonista della storia.

“Mi piaceva andare a scuola, ero molto brava, ma mia madre era contraria. Nella mia famiglia le donne non potevano studiare, le donne dovevano imparare a ricamare, rammendare, lavorare nei campi, cucinare e rassettare casa.”

La formazione giuridica di Patrizia Starnone si ritrova nella professione che intraprenderà la protagonista e nel lessico utilizzato in taluni passaggi del libro, come ad esempio nella spiegazione dei contratti tra latifondisti e braccianti, padroni e coloni, ma senza risultare pesante e complicato da comprendere. L’autrice analizza pure le azioni devastanti di una giustizia che spesso, nelle sue operazioni volte a combattere la criminalità organizzata, butta dentro il tritacarne anche persone oneste, totalmente estranee agli affari dei clan, che una volta assolte e uscite fuori dai procedimenti, si ritrovano, assieme alle rispettive famiglie, con l’immagine distrutta e un marchio difficile da levare dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica.

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Retaggi culturali e mali di Calabria

La ragazza della Locride è un romanzo che parla di una società condizionata dalle antiche interferenze della malavita, ma anche di emigrazione, incomprensioni famigliari e retaggi culturali che, godendo tutt’oggi di ottima salute, sono figli di una ossessiva mentalità maschilista che vede la donna sempre più nelle vesti del “secondo sesso” (Simone de Beauvoir), come una preda su cui tutti vogliono mettere le grinfie addosso; costumanze che aizzano quel calderone dal quale alcune zone di Calabria – sì come una bella donna che attira le brame di tanti – non riescono mai pienamente a venir fuori.

Antonio Pagliuso