Recensioni: “La rosa nel bicchiere” di Franco Costabile

Era il 1967 quando John Archibald Wheeler, fisico statunitense, coniava il termine “buco nero” per indicare un corpo atemporale caratterizzato da massa e dimensioni sì tanto smisurate da avere alla sua superficie una velocità di fuga pari alla velocità della luce nel vuoto.

Ci abbiamo capito assai poco, è ovvio, ma – non se ne dolgano fisici e studiosi – possiamo provare a semplificare il tutto con una immagine semplice, alla portata di tutti: un buco nero è un “luogo non-luogo” dal cui interno non può uscire nulla, neppure la luce.

Ostracismo culturale

Nel corso degli ultimi decenni, l’espressione è entrata nel lessico e nella vita di tutti i giorni e di tutti i sapiens: il termine “buco nero” è utilizzato quando si intende indicare un vuoto, una pecca, una falla, insomma uno spazio buio, ignoto e inesplorabile in cui si compie qualcosa di lontano da ogni pensiero e congettura generabili dalla mente umana. Si compie oppure non si compie, ché, specie nel mondo delle arti, l’espressione buco nero è adottata come sinonimo di oblio, voragine in cui piombano – o sono spinti, sulla falsariga dell’ostracismo praticato nell’Antica Grecia – e giacciono gli scrittori e i poeti dimenticati.

Scrittori dimenticati e riscoperti, il caso Franco Costabile

È lunga la lista degli artisti relegati ingiustamente in quel “luogo non-luogo”: il poeta Dario Bellezza, i romanzieri Alberto Bevilacqua, Giovanni Arpino e Fausta Cialente, giusto per dare qualche esempio e non smuoverci dal Novecento.

Poco decifrabili sono le ragioni all’origine dello sdrucciolamento di questi uomini e donne di lettere – ma il fenomeno riguarda ogni arte – nell’inghiottitoio della storia. Deterioramento dei temi trattati? Disinteresse dei lettori? Sventurate decisioni politiche e editoriali? La risposta non può essere unica e singolare.

Più identificabili, invece, sono i ritorni, gli affioramenti dalle tenebre che, pur per nulla frequentissimi, talvolta accadono. Fra le motivazioni fondanti di queste riapparizioni letterarie, di certo, sovente gioca un ruolo centrale una ricorrenza tonda come un anniversario di nascita o di morte. Ed è questo il caso di Franco Costabile, poeta nato in Calabria nel 1924 – cento anni fa –, la cui opera poetica, dopo un lungo periodo di purgatorio editoriale – e quindi culturale –, ritorna nelle librerie italiane, fruibile per vecchi e, soprattutto, nuovi lettori in una nuova raffinata pubblicazione voluta da Rubbettino Editore.

“Troppo

troppo tempo

a restarcene zitti

quando bisognava parlare, basta.”

La rosa nel bicchiere, ritornano le poesie di Costabile

Costabile grande poeta d’Europa. Così Aldo Nove, scrittore, poeta e intellettuale del nostro tempo, conclude la sua introduzione che, parimenti alla nota biografica e a una pesca di poesie disperse curate da Giovanni Mazzei, incornicia la raccolta dal titolo La rosa nel bicchiere comprendente l’opera omnia dell’autore scomparso in maniera tragica, e ad appena quarant’anni, nel 1965.

Grande poeta d’Europa: è questa l’unica etichetta che Nove si sente di assegnare a Costabile, poeta non etichettabile, autore principalmente di due raccolte, profondamente diverse nel loro contenuto: Via degli ulivi, silloge uscita per la prima volta nel 1950, e La rosa nel bicchiere, “severo capolavoro” edito nel 1961 – con titolo suggerito dal poeta e critico Libero de Libero – e accostato da Raffaello Brignetti alla più conosciuta Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che chiude la parabola artistica di Costabile.

Anzi no, ché l’autore del testo introduttivo non può esimersi dal magnificare i tre componimenti che il poeta destinò al lavoro collettaneo Sette piaghe d’Italia, voluto nel ’64 da Giancarlo Vigorelli, in cui si chiedeva a sette letterati – comparivano nelle pagine del volume anche Leonardo Sciascia e Domenico Rea – di raccontare i dolori dell’Italia al crepuscolo dell’epoca aurea e illusoria del miracolo economico: 1861, Cammina con dio e, soprattutto, Il canto dei nuovi emigranti, grido disperato, ode civile fra le più amate del poeta.

È la denuncia limpidissima che emerge dai tre componimenti, ravvisa Aldo Nove, “il lascito più scomodo e potente” del passaggio indelebile di Franco Costabile nella poesia patria, una poesia, quella del poeta nato in Calabria, oggi giustamente riemersa, superata la notte, riconquistata la luce, rimboccata la via maestra dopo lungo e penoso peregrinare per sentieri impervi.

La chiusura la troviamo nel brano che inaugura la raccolta, versi, estratti da Via degli ulivi, che ci paiono fra i più pregnanti riletti sotto il lume di quanto detto sino a ora:

“Per altri sentieri

torneremo alla piana

celeste di ulivi.

Saremo

dove si leva

l’infanzia dei profumi;

dove l’acqua

non si fa nera

ma vacilla di luna;

dove i passi

avranno memoria di solchi

e le dita di melograni;

dove ti piace dormire

e ti piace amare.

Sono questi gli orti,

i confini per ricordarci”.

Antonio Pagliuso