La stanza del buio è una struggente lettera d’amore e morte di una madre a un figlio tragicamente scomparso, un lungo dialogo con se stessi alla ricerca di una luce, ché “l’esistenza votata alla gioia produce più frutti dei giorni regalati alla tristezza e all’angoscia”.
“Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio.” La stanza del buio, il nuovo libro di Daniela Rabia edito da Pellegrini, riporta in esergo questa frase dello scrittore statunitense David Foster Wallace, un uomo le cui abissale sensibilità e quindi, riprendendo Pessoa, mancanza di praticità, lo hanno portato alla depressione, alla distruzione e, nel 2008, a soli quarantasei anni, al suicidio.
E di figli e di lacrime, perciò d’amore, il solo tema dell’umanità possibile – ché di cos’altro vuoi parlare? –, trabocca il romanzo di Daniela Rabia, mecenate della cultura, giornalista e direttore artistico di festival e rassegne letterarie, già autrice di altri lavori come Matilde. Non aspettare, la vita non ti aspetta e Le voci dell’eco. Una lunga lettera d’amore e morte di una madre a un figlio che non c’è più, strappato alla vita drammaticamente, in un istante fatale. Vent’anni per sempre.
Lo strazio di assistere alla morte della propria carne, col suo nero strascico di silenzio, solitudine, confino, viene raccontato con un intenso sfogo che lascia svuotati, e ancor prima lentamente scarnificati, pagina dopo pagina, senza soluzione di continuità.
“I dolori forti hanno l’andamento delle onde del mare in tempesta. Onde che ti assalgono all’improvviso, […] ti si schiantano addosso, ti sommergono, poi si ritraggono. Resta la spuma bianca che scompare lentamente sulla battigia dopo aver disegnato immagini vaghe. E si ricomincia senza requie finché il mare non torna calmo.”
Protagonista del diario è una donna, una madre sprofondata nel vuoto dei ricordi, pazza di dolore, incattivita dal destino, vendicativa financo. Non può darsi pace questa madre spezzata; inutili i tentativi di trasformare il dolore in dolcezza, impossibile cancellare i rimorsi e trovare un “momento di tregua nel cuore” per chi è convinto di avere sbagliato, per chi sa di avere perduto un attimo che non tornerà più:
“Colpa mia […] Che avrei dovuto avvertire il pericolo. Perché sono tua madre”.
Cerca un rifugio la mamma del romanzo: nella lettura, seppur comunque dolorosa – “Il senso di ogni romanzo alla fine conduce a te” –, in se stessa e nel confronto con altre persone nelle medesime condizioni. E quando tutto ciò non basta giunge la fede, una fede intima, personale, slacciata dai dogmi, rabbiosa, disperata, diffidente ma curiosa; una fede se da una parte volta a trovare un irraggiungibile perdono, dall’altra destinata a prendere consistenza nella solidarietà verso chi sta ugualmente e diversamente male – “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” (Lev Tolstoj). Sostegno a chi si sente perduto, chi ha incontrato lo stesso vuoto, ché “l’esistenza votata alla gioia produce più frutti dei giorni regalati alla tristezza e all’angoscia”, ché bisogna risalire l’erta del rancore, dell’odio, dell’ingiustizia che subiamo.
Delicata e furente, l’opera di Daniela Rabia ci insegna che non dobbiamo permettere agli abusi della vita, per quanto spietati e inspiegabili, di incattivirci, che non dobbiamo lasciare che il malanimo invelenisca quel che rimane. Perché qualcosa, anche se non lo vogliamo, anche se pensiamo di non meritarlo, rimane.
Antonio Pagliuso