Recensioni: “Macaone” di Nicola Longo

Una terra magica, la Calabria, a cui non si può non pensare con nostalgia, e una “vita da romanzo”, quella di Nicola Longo, che ha ispirato generazioni di poliziotti, si incontrano in Macaone, un libro che è anche un limpido affresco di una Italia che non esiste più.

“Non si sa come, né perché, ma ogni anno in quel punto della Calabria la valle è invasa da una miriade di farfalle che verso l’alba si scorgono assopite sui rami e per terra dove, con timidi battiti d’ali, salutano la luce.”

Taurianova e Jeropotamo, il paese e il fiume sacro della piana di Gioia Tauro, alle pendici dell’Aspromonte; tra aranceti e uliveti a perdita d’occhio, in una valle dove volano le farfalle. Come il macaone, specie di lepidottero che dà il titolo all’avvincente romanzo di Nicola Longo pubblicato da Rubbettino e presentato al Premio Strega 2022 da Marina Valensise.

Una regione incantata la Calabria, singolarità che emerge fin dalle prime pagine di Macaone. Dalle memorie d’infanzia di Longo – ci troviamo al secondo dopoguerra – traspare una terra magica e spietata, in cui “vige ancora la legge del rispetto” per cui le persone sono attente a non dire mai più del dovuto, secondo il vecchio adagio che chi si fa gli affari propri campa cent’anni.

La passione per la boxe e l’addio alla valle del Macaone

Autore e protagonista del romanzo, Nicola Longo cresce a contatto diretto con la criminalità e le dinamiche immobili degli anfratti più nascosti del Meridione. Galeotti, latitanti, briganti, figli di pregiudicati compongono il primo piccolo mondo dell’autore che, bambino, instaura una famigliarità con reati al tempo tanto frequenti quali l’abigeato, il pascolo abusivo, il delitto d’onore; reati dal sapore “antico” che corrono paralleli a quelli “moderni” commessi dalle ‘ndrine locali di ‘ndrangheta. Ci cresce però dall’altro lato della barricata, perché Longo è figlio del comandante della locale stazione dei carabinieri, “figlio di sbirro”, un marchio anche questo in talune realtà, dal quale si sente la necessità di staccarsi per non rimanervi invischiati.

Il giovane Longo perciò si appassiona alla boxe e fugge dal suo paese alla volta di un mondo più grande in cui confondersi, della città più vicina, di Reggio Calabria:

“All’alba inforcai per la prima volta la mia Legnano nuova di colore verde metallizzato e lasciai il paese, scivolando nella luminescenza dei lampioni ancora accesi. Tutt’intorno la campagna era buia e silenziosa; solo in lontananza si udiva il canto dei galli che annunciava il giorno”.

Da qua una inaspettata parentesi si spalanca dinanzi all’autore/protagonista: i primi successi sul ring, l’ingresso nella squadra delle Fiamme oro, la scuola di polizia, il trasferimento a Nettuno, alla Scuola allievi sottoufficiali per seguire le orme del padre poliziotto. Divenuto “carne venduta”, come dicono al paese, Nicola Longo entra nella sezione Narcotici della Squadra mobile di Roma, copre il ruolo dell’infiltrato e il romanzo intraprende una nuova strada, quella del poliziottesco all’italiana.

Nicola Longo, il James Bond italiano

Sullo sfondo di una Roma bellissima e ambigua, una città che sta abbandonando per sempre i night di via Veneto per infilarsi negli uffici del potere, una città in cui si muovono loschi figuri – terroristi rossi e neri, mafiosi, colletti bianchi senza scrupoli, “ragazzi di vita” –, Longo diventa protagonista del suo tempo. La sua piccola storia personale – piccola si fa per dire – si mischia con la grande storia d’Italia della seconda metà del Novecento, il Secolo breve, dal boom economico, quella fase che ci avrebbe modernizzato togliendoci però per sempre l’innocenza, ai disordini del Sessantotto, quella che gridò al cielo ideali che sarebbero stati puntualmente traditi, scivolando nel sangue degli Anni di piombo, anticamera dell’epoca delle stragi. Decenni cruciali della storia del Paese in cui Longo riesce a guadagnarsi i soprannomi di Nembo Kid e James Bond italiano grazie alle sue imprese nella lotta alla criminalità organizzata e al traffico internazionale di droga.

Al netto di alcuni episodi forse eccessivamente romanzati, quella del poliziotto/pugile è una “vita da romanzo”, come afferma Vincenzo Mollica nella postfazione dell’opera. Tra inseguimenti, tuffi notturni nelle acque gelide del Tevere, ma anche incontri inattesi, come quello con Federico Fellini che dalla storia di Longo avrebbe voluto realizzare un film, ci si ritrova a vivere assieme all’autore che le ha vissute realmente, le peripezie dell’ispettore Giraldi – primattore della celebre serie di film, da Squadra antiscippo a Delitto al Blue Gay, con Tomas Milian –, in una continua ascesa del grado di tensione, alleviata dai ricordi della fanciullezza calabrese che riemergono spesso nel corso della lettura.

La Calabria nella mente e nel cuore

Ritorna di continuo la Calabria nei pensieri del poliziotto e scrittore, come una antica bussola utile per orientarsi nel mondo, un orizzonte cui si guarda sempre. Una terra fantastica, legata a memorie lontane nel tempo; un posto dove potere ritrovare, un giorno, la purezza, l’incanto della gioventù. Una magia, però, che rischierà di svanire col ritorno fisico, col subentrare della realtà ai ricordi. 

“Vedevo la fine del tempo dei giochi azzardati e dell’innocenza. Il passato incontaminato che non sarebbe tornato mai più.”

Spariscono così le farfalle.

Con una scrittura ispirata, in un autentico stato di grazia narrativo, Nicola Longo realizza un affresco di una Italia che non esiste più, seppur continui a farsi sentire sulle nostre condotte e coscienze. Macaone è il romanzo di una vita per l’autore, a lungo scritto, rivisto, chiuso nel cassetto, rinnegato magari; un libro che ora chiede fiducia.

C’è un personaggio che ritorna sovente nell’opera: è Schizzo, scappato da Rosarno ancora ragazzino per non finire ammazzato come la sua intera famiglia. Si lega molto a Nicola Longo, Schizzo, in alcune circostanze lo aiuta nelle sue operazioni anticrimine; in un passaggio gli dice: “Arriva sempre il giorno in cui hai bisogno di parlare, di rivelare la tua vita a qualcuno per sentire che non sei invisibile, che ci sei davvero su questa terra […] Sento che posso fidarmi”.

Ecco, oggi è bello pensare che l’autore, pubblicando la storia della sua vita, lo abbia fatto con noi lettori.

Antonio Pagliuso