Recensioni: “Le cinque ferite” di Kirstin Valdez Quade

La spiritualità del romanzo di Kirstin Valdez Quade, Le cinque ferite, edito da La Nave di Teseo, ispira al lettore la necessità di cogliere e cercare segnali che vadano al di là della concretezza della vita quotidiana e dell’immanenza.

Il titolo del romanzo fa riferimento alle Sante Piaghe di Gesù, inferte alle mani e ai piedi, poi al costato da una lancia, sul capo con la corona di spine e infine provocate dalle frustate. E proprio così, con una netta ripresa della cristianità, inizia la vicenda.

Il protagonista maschile, Amadeo Padilla, impersona Gesù nella Settimana Santa per la comunità di recupero che da poco frequenta, la hermandad o fratellanza. Già in queste prime fasi della narrazione si intravede una caratteristica di Amadeo e del resto dei personaggi in bilico e tentati dall’alcol o dall’eroina: la volontà di sopravvivere. Alcuni personaggi, però, nel corso della narrazione non si accontenteranno più di conservarsi così come sono e si imbatteranno nel proprio cambiamento – vera tematica di fondo del romanzo – evolvendosi alla ricerca della salvezza definitiva. Per Amadeo, un alcolista di trentatré anni, l’elemento salvifico ha le fattezze di sua figlia Angel, una quindicenne insicura che si presenta incinta alla porta di suo padre e di sua nonna Yolanda. L’avvenimento indesiderato e critico diventa ben presto una chiave per la liberazione dai mali e il collante di una famiglia in rotta.

Padre e figlia sono i personaggi più votati all’evoluzione di tutto il romanzo. Infatti, all’inizio e per gran parte di esso ritorcono le loro insicurezze contro i propri corpi abusandone, come accade ad Amadeo, che ingoia litri di alcol sotto gli occhi scontenti della sua famiglia o che si fa inchiodare ad un legno e frustare per davvero solo per potersi dire vicino a Cristo, o alla maniera di Angel che vede nella sua avvenenza la manifestazione del suo potere sugli altri.

L’ago della bilancia tra i due estremi è rappresentato da Yolanda, madre e nonna devota e paziente, attenta a registrare ogni singola variazione d’umore e d’espressione dei suoi cari. Il rapporto tra genitori e figli è un altro dei temi fondamentali de Le cinque ferite, che, però, neanche nelle fasi più intense e puramente narrative, mette da parte il sottofondo spirituale. Anche Maria di Nazaret è inclusa nel gruppo dei genitori impotenti di fronte alle scelte dei figli, come d’altro canto lo sono Amadeo e Yolanda e sarà anche Angel.

Fare figli è terrificante, il modo in cui crescono e se ne vanno in giro per il mondo con le macchine e gli apparati riproduttivi funzionanti e le carte di credito; il modo in cui prima di sviluppare il buon senso o la paura sono perfettamente in grado di fare errori da adulti con conseguenze da adulti”: sono questi i pensieri di Amadeo, a disagio alla vista della figlia incinta e memore dei suoi stessi errori, delle sue crisi e delle fragilità che, a dire il vero, sono terreno di gioco della maggior parte degli uomini del romanzo.

Nel segno del costante cambiamento che modula le vite dei personaggi si inseriscono due tematiche collegate, cioè la malattia e la morte. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nessuna delle due fa da elemento di congiunzione tra i membri della famiglia Padilla, ma anzi danno sfogo a frustrazioni sopite, mostrano la volgarità della vita quotidiana e stimolano la forza autodistruttrice specialmente di Amadeo.

Come per gli altri passaggi, anche nelle riflessioni sul dolore la scrittrice fornisce il raffronto con Gesù, il cui dolore viene banalizzato, posto lontano anni luce da quello di qualunque mortale costretto a conviverci quotidianamente.

“La vera sofferenza non riguarda solo il dolore fisico, ma non sapere quando il dolore finirà, non capire il senso di tutta la faccenda”: è in questo punto che emerge la rabbia per l’impotenza, l’assistere passivamente alla pena altrui. Una rabbia che spinge perfino contro la religione. Al termine del romanzo si potrebbe quasi pensare di trovarsi di fronte alla risoluzione felice delle speranze dei protagonisti.

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In realtà non è altro che il compimento del messaggio dell’autrice che, attraverso una scrittura priva di sentimentalismi, immediata e visiva, indulgente solo con la simbologia cristiana e nativa americana, vuole dimostrare la verità di questo romanzo: “non c’è nessun modo in cui le cose debbano andare, c’è solo il modo in cui le cose vanno, e il modo in cui le cose vanno è che sono destinate a cambiare”.

Camilla Elleboro