Recensioni: Ultramarino di Mariette Navarro

“Sempre vieni dal mare

e ne hai la voce roca,

sempre hai occhi segreti

d’acqua viva tra i rovi”

(La terra e la morte, Cesare Pavese)

Una nave taglia in due l’Oceano Atlantico, dalla vecchia Europa alle Piccole Antille. Distante migliaia di miglia da qualsiasi costa. Una nave e il suo equipaggio, in una lenta traversata nell’invisibilità degli oceani; uomini privilegiati che possono “osservare da lontano come la vita se la cava senza di loro”.

Cullati dalle onde basse del mare, catturati da una assopente “voglia di lentezza”, entriamo nelle pagine di Ultramarino, il romanzo d’esordio dell’autrice e drammaturga francese Mariette Navarro, pubblicato da La nuova frontiera con la traduzione di Camilla Diez.

A capo dell’equipaggio, comandante della nave da tre anni, c’è una donna. Figlia del mare cui appartiene, ché a crearsi una vita terrestre, con le sue ipocrisie e meschinità, non ci ha mai pensato; ama il mare la comandante, lì vuole vivere e lì sogna di morire, un giorno, “alla mercé delle onde dopo anni di erranza”.

Mare che è “confine libero”, seducente, inafferrabile, “orizzonte che richiama proprio perché sfugge”, come scriveva Franco Cassano, ma senza alcun desiderio di patria, di approdare all’ideale Itaca che non c’è.

Un bagno in mare aperto

Il viaggio, anzi la fase di stasi del viaggio, è al centro di Ultramarino – libro pubblicato in patria nel 2021 dall’editore Quidam, ma che nasce già nell’estate del 2012 quando l’autrice si unì a una residenza per autori a bordo di un cargo – quando, nel corso della navigazione, un desiderio improvviso, “un’idea luminosa” si impossessa dei marinai: quello di tuffarsi in mare, di sentirsi nudi e liberi, dimentichi di tutto: del pericolo, delle distanze, dei morti affogati.

Un banco d’esseri umani, giovani, gagliardi, scattanti si muove leggero in acqua: “hanno lasciato i suoni della terra e della superficie, scoprono la musica del loro stesso sangue”, prendono contatto con il loro corpo, pienamente, dondolati dalla voce del mare, dal “suono nero” dell’apnea.

Il terrore e leuforia, tra il cielo e l’abisso

È un bagno liberatorio e iniziatico, un bagno rivelatore di purezza. Ma improvvisamente accade qualcosa. Gli uomini vengono travolti da un’onda anomala di pensieri: si ritrovano storditi, pensano al lontanissimo fondale, a quanti hanno sognato di camminarci e a quanti sono rimasti intrappolati a metà strada, tra il cielo e l’abisso, la luce e le tenebre. D’un tratto hanno “la netta visione dei chilometri sotto ai loro piedi, e sono stati colti da ciò che non si aspettavano di trovare lì, la vertigine”.

Una paura improvvisa, ancestrale, ignota, come quella che acchiappa e lascia inerme chi allunga le gambe in acqua avvertendo netto il vuoto dei chilometri laggiù, oppure sfiora ciò che non si aspetta: l’ombrella di una medusa o la pinna di uno squalo.

Un’idea terrificante e al contempo inebriante che apre loro una voragine nello stomaco, ne oblia la consapevolezza di essere marinai; sbaragliati dal panico e “dal piacere della deriva”.

“Dimenticano le paure e si sentono gonfi di una fierezza subito ritrovata, quella di essere stati, per un istante, liberati da tutto, audaci, forti, atletici, felici, fortunati, eletti, resistenti, unici e vivi.”

L’animale-nave di Ultramarino

Il bagno in mare aperto si rivela uno spartiacque: risaliti a bordo della nave, infatti, si susseguono le stranezze, gli eventi inspiegabili, a cominciare dal numero dei componenti dell’equipaggio, non più venti ma ventuno.

Senza spiegazione, poi, la nave ha smesso di rispondere ai comandi degli umani, in preda a una incomprensibile autonomia. L’imbarcazione diventa protagonista ricevendo le domande del capitano: “Che cosa stai combinando? Di cosa hai paura, animale-nave? […] Forse anche tu stai tramando qualcosa? Forse anche tu ti immergerai di colpo come fanno le balene, trascinandoci giù negli abissi?”.

Inghiottita da una densa bruma, sospesa tra il biancazzurro del cielo e del mare, la nave pare assumere l’identità di uno zaratan, il leggendario mostro marino narrato nei manoscritti e trattati di secoli lontani, bestia talmente grande che i naviganti scambiavano per un’isola.

Immobili come in mezzo alla bonaccia, i marittimi si trovano al cospetto di una forza ultraterrena, ovvero ultramarina, una energia che incute timore, che terrorizza, che fa perdere la ragione e la coscienza che in mare, più che in ogni altro luogo, bisogna tenere ben saldi i nervi.

In mezzo al mare, pronti a svanire

La nave può realmente scegliere come comportarsi? Può decidere di lasciarli lì, in mezzo al nulla, con l’acqua fino al collo e chilometri di vuoto sotto i piedi, pronti a inghiottirli per sempre? “È dolce morire nel mare” scriveva Jorge Amado. “È dal mare che arriva morte e vita” gli fece eco Giusi Verbaro.

La resurrezione

Capitana di una “nave dal cuore che batte da solo”, la protagonista di Ultramarino di Mariette Navarro scoprirà una nuova sé nell’attesa dell’azione. Riesce a carezzare l’idea che la natura e le macchine possano comunicare senza farsi capire dall’arrogante uomo che crede di governarle e deciderne le sorti. Ma quando questa consapevolezza pare materializzarsi, la bruma svanisce, la nave riprende a muoversi, il viaggio riparte, lasciando la sensazione che tutto sia stato un sogno o che si è assistito a una lezione dalla quale usciamo inebetiti, risorti, finalmente vivi.

“Cosa ignota e selvaggia

sei rinata dal mare.”

Antonio Pagliuso