Recensioni: “Gentiluomo in mare” di Herbert Clyde Lewis

“Quando Henry Preston Standish precipitò a capofitto nell’Oceano Pacifico, il sole stava sorgendo all’orizzonte.”

È fulminante l’incipit, sì come l’intero capitolo iniziale di Gentiluomo in mare, opera dello scrittore americano Herbert Clyde Lewis. Un racconto lungo centoquaranta pagine, lisce e pericolose come un mare in bonaccia.

Nato nel 1909 a Brooklyn da genitori immigrati russi di lingua yiddish, Herbert Clyde Lewis (il cognome paterno era Luria) è stato giornalista, reporter – nei primi anni trenta lavorò in Cina – e sceneggiatore, candidato agli Oscar del ’47 per Accadde nella Quinta Strada. Tre anni dopo, al culmine di una vita movimentata ma insoddisfacente – durante la quale più che successi aveva accumulato debiti –, morirà in circostanze mai del tutto chiarite: taluni parlarono di un attacco di cuore, talaltri di suicidio, ultimo stadio dell’esaurimento nervoso di cui soffriva da tempo.

Nella sua breve vita, Lewis scrisse anche tre romanzi. Il primo è Gentiluomo in mare, oggi edito da Adelphi a cura di Marco Rossari. E si tratta di un mezzo miracolo editoriale per un romanzo che, pubblicato per la prima volta in America nel 1937 e presto scivolato nell’oblio, naufrago in mare per lunghissimi decenni, è stato recuperato soltanto nel 2010 in Argentina.

Il romanzo di Herbert Clyde Lewis

Arabella è il nome di un piroscafo salpato dal porto hawaiano di Honolulu e diretto a Balboa, imboccatura sud del Canale di Panama. A bordo vi sono poche persone, quasi tutte membri dell’equipaggio: tra i pochissimi passeggeri c’è Henry Preston Standish.

Lewis ci presenta brevemente ma con efficacia il tipo: trentacinque anni, agente di Borsa di Wall Street, sposato con una donna rispettabile, padre di due splendidi bambini, un uomo senza eccessi e passioni, “né introverso né estroverso”. Una vita tranquilla, appena appena “oberata di doveri e responsabilità”, che un giorno, improvvisamente, appare a Standish in tutta la sua nauseante piattezza. Il giovane uomo decide così di prendere il mare, imbarcarsi per qualche mese, sicuro che soltanto in viaggio riuscirà a ritrovare la pace interiore.

Da New York giunge in California, poi nel golfo dell’Alaska e da lì a Honolulu. Il tentativo di lasciarsi alle spalle le aspettative e gli obblighi della sua esistenza – ché non si può sfuggire al proprio destino – però presenta il conto. In navigazione verso Panama, Standish si sveglia di buon’ora. Sono da poco passate le quattro del mattino. Si veste di tutto punto, prende una tazza di caffè e si approssima verso un angolo dello scafo dell’Arabella per ammirare l’alba smorta sull’oceano, la molle e suggestiva “trasformazione della notte in giorno”. Lui che non ha mai provato né cercato una emozione in vita sua, ora sente di averne bisogno.

“La nave solitaria che solcava il mare immenso, la miriade di stelle che svanivano nel cielo sconfinato: erano tutte cose elementari che allo stesso tempo calmavano e agitavano Standish. Era come se stesse comprendendo per la prima volta quanto fossero insignificanti e irrilevanti tutte le seccature della vita, vergognandosi di averle patite in un mondo che era stato in grado di creare una scena del genere.”

È in questo momento, alle cinque e ventitré precise, che il finanziere scivola su una macchia d’unto, vista e sottovalutata, e d’un tratto si trova sbalzato fuori dalla nave. Un gentiluomo finisce in mare, “dritto come un fuso nell’acqua salmastra”; un tuffo perfetto, prima le braccia, poi la testa e infine il busto e le gambe, meglio del millenario Tuffatore di Paestum.

Un inconveniente sconveniente

Superati i primi istanti in cui Mister Standish è governato dall’istinto di sopravvivenza che gli permette di non lasciarsi tritare dall’elica, l’uomo comincia a riflettere, tenendo col fiato sospeso il lettore, già irrimediabilmente innamorato della storia. L’agente di Borsa non cede al terrore per quello che gli è appena accaduto – e all’idea di quello che gli accadrà da lì a poco –, no; egli è travolto dall’imbarazzo: un uomo come lui non può cascare da un piroscafo nel bel mezzo dell’oceano; è un’azione sciocca, infantile, disdicevole. Non si fa, perdindirindina.

Standish è affranto: cadere da una nave, specie per un gentiluomo come lui, genererebbe antipatici grattacapi per il capitano, il timoniere, il marconista, il mozzo, il cuoco di bordo. Avrebbero dovuto invertire la rotta, gettare in acqua un salvagente o financo calare una scialuppa e il suo salvataggio avrebbe dato vita a uno spettacolo sconveniente che nessuno avrebbe dimenticato; anzi, ognuno degli spettatori avrebbe raccontato e divulgato in tutto il mondo quella scenetta per chissà quanti anni. Standish si presenta come uno di quegli uomini della storia che preferiscono morire anziché disturbare gli altri o dare spettacolo.

L’immobilismo del gentleman è una immagine che sgomenta il lettore: ci manca soltanto che a un certo punto il protagonista del romanzo vada in apnea sott’acqua per scongiurare l’evenienza che un marittimo o un altro viaggiatore mattutino lo possa scorgere nel blu piombo del mare.

Quando la ragione – finalmente – riprende il suo posto nel cranio scriteriato di Standish, l’agente di Wall Street finito in mare prova a urlare, ma oramai il natante è troppo lontano. Il destino dell’uomo è segnato.

Gli ultimi pensieri di un condannato a morte

Nell’approssimarsi della lentissima e inesorabile fine, alla mercé degli elementi, lo sventurato pensa, ora con terrore ora con irrazionale positività, cercando di non impazzire, ché un signore dabbene non può permettersi di uscire di senno, anche dinanzi la morte. Pensa al momento in cui lo salveranno e all’imbarazzo che proverà nel farsi ripescare coi i mutandoni a righe gialle e blu che improvvidamente ha indossato quella mattina – ma d’altra parte capiranno: e chi poteva aspettarsi quello sviluppo della giornata? –; ancora pensa a quando potrà raccontare la bizzarra faccenda agli amici e ai figlioli, gonfiando chiaramente la trama, e al successo che ne conseguirà, ché una volta tratto in salvo e intervistato dai giornalisti, gli copriranno il petto di onorificenze “per l’audacia, per la resistenza, per il coraggio e per l’incrollabile speranza” dimostrati.

Un’ondicella più tardi, però, crolla tutto e il galantuomo si ritrova a fare i conti con la sua inadeguatezza – e non solo in quell’ancestrale mondo –, e con la consapevolezza della vita ridicola che ha condotto. Standish si biasima per la sua stupidità e rassegnato alla sua malasorte, a essere inghiottito dai flutti, ignorato dal benché minimo testimone, si pente di non essersi lasciato maciullare dall’elica dell’Arabella non appena piombato in mare – un istante di dolore acuto che gli avrebbe evitato quella straziante agonia dietro le quinte del mondo.

L’eredità di Gentiluomo in mare

A bagnomaria in mezzo all’infinito equoreo e lasciandoci inermi – ché a questo punto avremmo voluto salvarlo quell’uomo inutile –, mister Standish naufraga. Ma dall’ultimo guizzo d’acqua salata rimane un insegnamento, una eredità che forse anche lui ignora: che la nostra morale, la nostra riservatezza, il nostro senso del dovere possono trasformarsi in una gabbia. Gabbia dentro cui probabilmente si sentì Herbert Clyde Lewis, l’autore, quando si abbandonò alla morte, trascinando nel dimenticatoio anche la sua opera.

Fortunatamente l’editoria è uno spazio in cui si realizzano le acrobazie più imprevedibili e la commedia nera del romanziere statunitense è ritornata tra noi con l’obiettivo di reclutare i giusti testimoni per perpetuare una storia di cui, riprendendo le parole del gentiluomo inghiottito dall’oceano, il mondo ha bisogno.

Antonio Pagliuso